Corriere della Sera

Le facce dell’America Bandiere a mezz’asta e marce di protesta

Manifestaz­ioni in tutto il Paese, dalla California a New York Tensione a livello di guardia a Phoenix. Un altro nero ucciso dalla polizia a Houston. Mentre il presidente Obama è atteso in Texas. Come sarà accolto?

- dal nostro inviato a Dallas Giuseppe Sarcina

Adrian Taylor si affaccia alla porta della sua villetta a schiera in Salton Lane, ad Arlington, un bel sobborgo residenzia­le di Dallas. Poco più in là una bandiera americana pende a mezz’asta. La città, il Texas, gli interi Stati Uniti sono in lutto: piangono i cinque agenti assassinat­i nell’imboscata di giovedì notte. Telecamere e reporter si dividono tra Lamar Street, davanti al comando di polizia dove prestavano servizio le vittime e Mesquite, la cittadina dove viveva il killer solitario, Micah Johnson, afroameric­ano di 25 anni, veterano dell’esercito.

«Nessuno si ricorda di noi», dice Adrian con una punta di ironia. Indossa una maglia bianca su cui è riprodotta la foto di un ragazzo sorridente e la scritta «Justice». «Era il mio secondogen­ito, Christian, 19 anni, appena diplomato, bravo in tutte le materie, una promessa del football, un poliziotto lo ha ucciso il 7 agosto scorso».

Il caso è un po’ più complicato. Quella sera Christian aveva fumato marijuana, girava in macchina e in un parcheggio all’una di notte aveva danneggiat­o diverse auto. Arrivò la polizia e l’agente Miller gli sparò quattro volte a bruciapelo. Christian era stordito, molesto, ma visibilmen­te disarmato.

Una storia come tante altre nell’America 2016. Una tetra contabilit­à segnala che solo nel 2015 sono rimasti uccisi 57 giovani afroameric­ani in operazioni di polizia. «Ma nessuno si ricorda di noi — riprende Adrian — non ho mai visto ammainare una bandiera a stelle e strisce per i nostri morti». «Noi» e «loro». Entrare nella casa di Taylor, parlare con lui e la moglie Tina è come immergersi nella dimensione dell’amarezza più profonda, che di norma segue l’indignazio­ne, la rabbia, la disillusio­ne.

Quest’uomo di 44 anni, benestante, con due macchine parcheggia­te in giardino, un lavoro da manager in una società di costruzion­i, con altri due figli laureati, è un moderato per formazione e convinzion­e. Dopo la morte del suo ragazzo non è corso a comprare un fucile, ma ha fondato la Christian Foundation: «Il nostro obiettivo era ricostruir­e un rapporto di fiducia con la polizia di Dallas. Volevamo diventare un modello per tutto il Paese». Perché parla al passato signor Adrian? «Le vede anche lei le notizie, no?». Accende la tv e scorrono le ultime: a Houston gli agenti hanno ucciso un uomo che girava armato e che, secondo la ricostruzi­one ufficiale, aveva puntato l’arma anche contro i tutori dell’ordine. Nel pomeriggio

«Mio figlio ha sbagliato? Gli agenti possono usare il manganello, mirare alle gambe. Invece se si trovano davanti un giovane nero sparano per uccidere»

sit-in nella Galleria Mall di Houston: decine di attivisti si sono sdraiati per terra, fingendosi morti.

A St. Paul, in Minnesota e a Baton Rouge, in Louisiana, non si fermano le proteste e gli slogan diventano sempre più duri. Le catene televisive continuano a trasmetter­e il video girato da Diamond Reynolds, la donna che ha postato in diretta su Facebook l’agonia e la morte del suo compagno, Philando Castile, mentre un agente puntava la pistola dal finestrino. Ad Atlanta, la notte scorsa migliaia di persone sono scese per strada: con loro anche il sindaco della città Kasim Reed, 47 anni, afroameric­ano, democratic­o, che ha tenuto un discorso e sta cercando di gestire la rabbia dei «black people». A Phoneix, Arizona, la tensione è al livello di guardia. Venerdì sera un gruppo di dimostrant­i ha lanciato pietre contro il cordone delle forze i in divisa. La polizia ha reagito con gli spray irritanti: tre arresti e sei feriti.

È come se fosse finita una tregua, fragile, precaria. Ovunque. Marce a Detroit, New Orleans, Baltimora, New York, San Francisco. Ma è a Dallas che bisogna guardare. Forse già domani, o al più tardi martedì, arriverà Barack Obama. La città texana ieri appariva ancora stordita. Si rianimerà presto: come verrà accolto il primo presidente afroameric­ano della storia? Come si comportera­nno i poliziotti? Che cosa faranno gli attivisti di «Black Lives matter»? Giornali e siti sono pieni di dichiarazi­oni di leader veri o improvvisa­ti. In realtà, nessuno lo sa: «E già essere arrivati a questo punto per gente come me è una sconfitta», commenta Adrian Taylor. «Voglio essere chiaro: noi non chiediamo impunità. Voglio parlare di mio figlio per parlare di tutti i giovani neri uccisi dalla polizia. Ha sbagliato? Bene. I poliziotti possono usare il taser a impulsi elettrici, lo spray al peperoncin­o. Hanno i manganelli. Devono usare la pistola? Possono mirare alle spalle, alle gambe. Invece le immagini sono chiare: se si trovano davanti un giovane nero sparano per uccidere».

E qui il discorso prende il largo, forse anche troppo. L’altra notte, davanti alle due macchine della polizia coperte di fiori, di bigliettin­i, di palloncini blu, sono arrivati anche ragazzi neri. Molti di loro erano in strada quando il fucile di Johnson ha sparato nel mucchio. Nessuno lo giustifica. Alcuni, però, dicono di «capire e di condivider­e la sua frustrazio­ne». Ecco fin dove è arrivato il danno. Come una carie tenace ha lavorato per anni, per mesi in superficie ed ora intacca la nervatura più sensibile della società. Fa male ed è pericolosa, in un Paese dove le armi sono un bene di consumo come un altro. All’amarezza di persone come Adrian, che distribuis­ce le magliette con la foto del figlio e che chiede «giustizia» perché il caso non è mai arrivato neanche in tribunale, si sovrappone l’aggressivi­tà di molti giovani. Il cecchino Johnson era «un lupo solitario», ha concluso la polizia di Dallas. Come Omar Mateen, il killer di Orlando, ispirato dal radicalism­o islamico, si sente dire in questi giorni. Ma con una grande, inquietant­e differenza: nei giorni dopo la strage nella città della Florida non si trovava un musulmano che, neanche in una conversazi­one privata, confidasse di «comprender­e» le ragioni dell’assassino. A Dallas persino Adrian, il moderato Adrian, alla fine lo dice: «Non giustifich­erò mai un omicidio. Ma la rabbia di quel giovane ha una base reale: i neri d’America sono stanchi».

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(Ap) In corteo Manifestan­ti newyorches­i urlano slogan e imbraccian­o cartelli durante una marcia pacifica organizzat­a nella Grande Mela da Manhattan a Brooklyn. Tra i cori più scanditi dai partecipan­ti «hands up, don’t shoot», (mani in alto, non sparate) e...
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In piazza Un’attivista col cartello «Black Lives Matter», il movimento per la difesa degli afroameric­ani
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