Il filosofo sulla Brexit, la Ue, Merkel «Lei ha una sola idea: restiamo fermi»
Signor Habermas, Lei avrebbe mai ritenuto possibile la Brexit? Qual è stato il suo stato d’animo quando ha saputo del successo del Leave?
«Non mi aspettavo che il populismo battesse il capitalismo nel suo Paese d’origine. Vista l’importanza essenziale del settore bancario per la Gran Bretagna e considerando il potere mediatico e la capacità di fare valere le proprie ragioni da parte della City di Londra, era improbabile che questioni di identità riuscissero ad avere la meglio su posizioni legate ad interessi».
Un referendum in Germania sarebbe finito diversamente da quello della Gran Bretagna?
«Penso proprio di sì. L’unificazione dell’Europa è stata fatta — e funziona tutt’oggi — nell’interesse della Repubblica Federale. Nei primi decenni del dopoguerra abbiamo potuto recuperare una reputazione nazionale, totalmente compromessa, soltanto passo dopo passo e come “buoni” europei che operavano in modo prudente. Alla fine abbiamo potuto usufruire, per la riunificazione, della copertura da parte dell’Ue. Guardando indietro nel tempo, la Germania è stata anche il beneficiario dell’Unione monetaria europea, a maggior ragione nel corso della crisi dell’euro. E poiché a partire dal 2010, attraverso il Consiglio d’Europa, il governo federale ha avuto la meglio sulla Francia e sugli Stati europei del Sud in virtù delle idee ordoliberiste della propria politica del risparmio, Angela Merkel e Wolfgang Schäuble continuano ad avere gioco facile nel dare di sé stessi davanti all’opinione pubblica del proprio paese l’immagine di difensori autentici dell’idea d’Europa. Si tratta sicuramente di un modo molto nazionale di vedere le cose, ma questo governo non ha dovuto temere una stampa, indipendente dal corso governativo, che informasse la popolazione sulle buone ragioni che hanno portato gli altri Stati membri ad una valutazione della situazione completamente diversa».
Il desiderio britannico di lasciare la UE ha motivi nazionali o è sintomatico di una crisi dell’Unione Europea?
«Sia l’uno, sia l’altro. I britannici hanno alle spalle una storia diversa da quella del Continente. La consapevolezza politica di una superpotenza, che nel XX secolo è stata due volte vittoriosa, ma che, dal punto di vista della politica mondiale, è in discesa, non si adegua alla mutata situazione senza un ritardo. Con questa concezione di sé come nazione la Gran Bretagna è finita in una situazione difficile, dopo che aveva aderito nel 1973 alla Comunità economica europea soltanto per ragioni economiche. Perché le elites politiche, dalla Thatcher attraverso Blair fino a Cameron, non pensavano minimamente di recedere dal proprio sguardo distante sulla terraferma. Era già stato lo sguardo di Churchill, nel suo discorso europeo del 1946 a Zurigo, a ragione divenuto celebre, che aveva visto l’impero britannico come padrino benevolo di un’Europa unita, ma, per l’appunto, non come sua parte. Anche a Bruxelles i britannici hanno condotto una politica fatta di riserve, seguendo la massima “lavami, ma non mi bagnare”».
Lei ha spesso rimproverato alla Signora Merkel una politica del «continuiamo così». Almeno nella politica europea.
«Temo che questa consueta politica del placare avrà o ha già avuto la meglio: nessuna prospettiva, mi raccomando! L’argomentazione è: “Non vi agitate, l’Ue si è sempre trasformata!” Di fatto la strategia, senza prospettiva, del cavarsela alla meglio, messa in atto durante la crisi dell’euro, la quale nel frattempo continuava a covare, ha avuto per conseguenza che la Ue non potesse proseguire “come prima” nella modalità reattiva dell’adattamento. Ma il precipitoso e anticipatorio adattamento alla normalità del “frenetico stare fermi“si paga con la rinuncia alla progettazione politica. Eppure è stata proprio Angela Merkel che per due volte ha confutato in modo convincente l’opinione, che circolava tra i sociologi, per cui non vi sarebbe stato lo spazio per agire – nei casi del cambiamento climatico e dell’accoglimento dei rifugiati. Sigmar Gabriel e Martin Schulz sono da queste parti le uniche voci famose che ancora tradiscono un temperamento politico e che non vogliono rassegnarsi alla timida uscita di scena della politica da ogni tentativo di Ruolo tedesco La Germania è un’egemone riluttante pensare anche soltanto guardando i prossimi tre o quattro anni. Non è segno di realismo quando la leadership politica si abbandona al corso plumbeo della storia. In Gefahr und größter Not bringt der Mittelweg den Tod, “In caso di pericolo e di più grande bisogno la via di mezzo porta alla morte”: in questi giorni ho dovuto spesso pensare al film del mio amico Alexander Kluge. Certo, si sa sempre soltanto guardandosi indietro se ci sarebbe stata un’altra via. Ma, prima di rigettare un’alternativa mai tentata, si dovrebbe cercare di immaginare il nostro presente come il passato del presente di un futuro storiografo».
La Brexit rafforza l’influenza tedesca?
«Il recupero di una presunta “normalità” nazionale ha portato al cambiamento di quella mentalità nel nostro Paese che si era formata in decenni di lotte e contrapposizioni nella vecchia Repubblica Federale. A ciò corrispondeva uno stile sempre più sicuro di sé e l’indirizzo “realistico” della politica della Repubblica berlinese con accenti sempre più risoluti verso l’esterno. Dal 2010 osserviamo come il governo tedesco svolge il suo ruolo di leader, ottenuto nel tempo in modo involontario, meno nell’interesse comune che non piuttosto in quello proprio. Persino un editoriale della Frankfurter Allgemeine Zeitung lamenta l’effetto controproducente della politica tedesca, “perché scambia la leadership europea sempre di più con la realizzazione delle proprie idee di ordine” (Faz del 29 giugno 2016). La Germania è un’egemone riluttante e al tempo stesso insensibile e incapace, che utilizza e contemporaneamente nega il disturbato equilibrio
«No, essi devono perdere terreno già durante questo cammino. Se vedo bene, oggi tutti partono dal presupposto che l’Unione debba riconquistarsi fiducia, per poter togliere l’acqua al populismo di destra. Una delle frazioni vuole dimostrare la capacità d’azione, per fare impressione alla destra, mettendo in mostra i muscoli. Lo slogan è “non più visioni, ma competenza nelle soluzioni”. Da questo punto di vista Wolfgang Schäuble ha ora anche pubblicamente abiurato alla propria idea di un’Europa del nucleo. Egli scommette tutto sull’intergovernamentalismo, dunque sul fatto che i capi di Stato e di governo si mettano d’accordo tra di loro. Scommette sull’apparenza di una cooperazione di successo tra forti stati nazionali. Ma gli esempi che enuclea — l’unione del digitale di Oettinger, l’europeizzazione dei budget per gli armamenti o un’unione dell’energia — difficilmente avranno l’effetto desiderato di impressionare. E nel caso dei problemi davvero urgenti — egli stesso indica la politica sui rifugiati e la creazione di un diritto d’asilo europeo, ma poi mette da parte la drammatica disoccupazione giovanile nei paesi del sud — i costi della cooperazione sono così elevati come sempre. L’altra frazione raccomanda perciò l’alternativa di una cooperazione approfondita e vincolante in una cerchia più piccola di stati disposti alla cooperazione in maniera duratura. Una tale Unione non ha bisogno di scegliersi i problemi da affrontare al fine di dimostrare la propria capacità d’azione. Già durante il percorso i cittadini devono poter riconoscere, che vengono affrontati quei problemi sociali ed economici, che causano la incertezza, la paura di una retrocessione sociale e il sentimento della perdita di controllo. Stato sociale e democrazia costituiscono un contesto intrinseco che in una comunità monetaria non può più essere garantito dal singolo stato nazionale». ( traduzione di Steffen Wagner)
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Unione Europea Più democrazia si ottiene solo con più cooperazione