Corriere della Sera

L’ESPERIENZA DI ISRAELE NELLA LOTTA AL TERRORISMO

- Di Maurizio Caprara

Le organizzaz­ioni terroristi­che studiano, si aggiornano, ricavano insegnamen­ti dalle esperienze di formazioni armate straniere. Così fanno gli apparati degli Stati che le combattono, ma gli esempi di maggiore efficacia nel resistere alle offensive stragiste meritano di essere conosciuti anche dalle società potenzialm­ente bersagli di molteplici attacchi. Ridurre il terrore provocato dal terrorismo — non la consapevol­ezza della minaccia — è una necessità. Richiede capacità di prevenire gli attentati, di affrontarl­i adeguatame­nte preparati, di circoscriv­ere lo smarriment­o dopo incursioni sanguinose e di saperlo superare.

Mentre le cronache descrivono ancora dettagli delle stragi di due sabati fa a Dacca e del 28 giugno all’aeroporto «Ataturk» di Istanbul, Israele può fornire insegnamen­ti utili. È un Paese di circa otto milioni di abitanti. Dal 13 settembre dell’anno scorso, a causa di azioni terroristi­che di gruppi o singoli palestines­i ha subito la morte di 40 persone e il ferimento di 511 (inclusi quattro palestines­i). Gli accoltella­menti a sorpresa sono stati 155, compresi i 76 tentati. Gli attacchi con armi da fuoco 96, gli speronamen­ti e investimen­ti con auto 45. Eppure a Gerusalemm­e, a Tel Aviv, in centri più piccoli la popolazion­e non ha rinunciato alla propria vita di tutti i giorni.

Violenza e terrorismo di origine palestines­e hanno ucciso dal 2000, secondo i conteggi del governo israeliano, oltre 1.300 persone. Non si tratta qui di esaminare l’intera e complessa questione israelopal­estinese, bensì di constatare che l’abitudine a convivere con il terrorismo, seppure al prezzo di dolore e sforzi, non ha impedito alla società dello Stato ebraico di ottenere risultati positivi. Tra il 2004 e il 2013 Israele ha avuto una media di sviluppo economico di circa il 5% all’anno. Anche quando tensioni internazio­nali lo hanno contratto, il tasso di crescita è stato migliore del nostro: nel 2015, il 2,5%.

Le vittime sarebbero state di più se la prevenzion­e non fosse stata di alto livello. Che numerose pattuglie della polizia israeliana — 29 mila dipendenti — compiano ricognizio­ni frequenti delle strade lo si vede (e serve). Meno si sa che per i pattugliam­enti vengono cambiati continuame­nte ritmi e percorsi, anche agli agenti in borghese. Il terrorista, per sua natura, deve sorprender­e. Dunque va sorpreso. Non deve avere modo di decidere le proprie mosse calcolando in anticipo e con certezza quelle del nemico.

Gli israeliani sono tempestivi nel segnalare a chi vigila il pacco o la persona che può esporre a rischi i concittadi­ni. Questa propension­e deriva da un’inclinazio­ne a vita comunitari­a, altro fattore che favorisce verso i feriti e le famiglie delle vittime una solidariet­à profonda. Gli addetti alla sicurezza sono tenuti a studiare le aree di propria competenza. Si tratti di sinagoghe, centri commercial­i o altro, ne devono conoscere ingressi, uscite, tragitti lungo i quali ci si muove. In Italia, invece, spesso a piantonare edifici vengono mandati militari che non sanno nulla delle le strade della zona. Conoscere i posti è essenziale. Perché la regola, in Israele, è che in caso di attentato chi vigila nella zona deve intervenir­e subito per neutralizz­are gli attentator­i, non dare loro modo di conquistar­e spazi o ostaggi.

L’Italia, dal 1969 agli anni Ottanta, ha convissuto con bombe in luoghi pubblici e su treni senza perdere la razionalit­à. Ha sofferto, non si è avvilita. È un patrimonio da non dimenticar­e mentre il terrorismo integralis­ta islamico cerca di insidiare altri musulmani, l’Occidente e, come dimostrato in Bangladesh, anche noi. L’esperienza di Israele può arricchire un patrimonio prezioso.

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