Essere vicini ai figli ma senza identificarsi con loro
Che chi cura gli altri per mestiere debba imparare a confrontarsi con la sofferenza è intuibile; più doloroso è capire che può toccare a tutti noi. Specie se chi abbiamo davanti è un bambino, nostro figlio, nostro nipote. Come ha sottolineato Michele Oldani, sociologo e psicoanalista, tra i relatori dell’incontro organizzato dalla Fondazione Quarta (si veda l’articolo sopra) , l’adulto deve avvicinarsi in modo empatico al mondo infantile, ma deve evitare di sovrapporre se stesso, e la sua personale fragilità, a quella del figlio con il rischio che la malattia del bambino venga vissuta come un fallimento del genitore. Fondamentale è anche capire che la paura del bambino è diversa da quello dell’adulto: chi è piccolo teme il presente, il disagio del momento imposto dalla malattia, il concetto della morte tanto più il paziente è giovane, tanto più è lontano. Quello che invece importa è il sentirsi compreso, amato, “contenuto” prima che nasca nel piccolo il pensiero che tutto quello che accade intorno a lui, compresa la sua malattia, sia colpa sua. «La solitudine dei genitori che non fanno più parte di una famiglia allargata — ha invece ricordato il sociologo Enrico Finzi — nei momenti di crisi pesa ancora di più e si fa più forte la tentazione di vivere il figlio, spesso unico e preziosissimo, come una protesi di sé, adultizzandolo e negandone le specificità. Una distorsione dell’immagine del bambino legata all’incapacità di pensare la morte e che espone ad atteggiamenti contradditori: o di aggressività versi chi lo cura (ma anche all’interno della stessa coppia genitoriale) o di fuga e rinuncia».
Da Momcilo Jankovic, responsabile dell’Unità di Day Hospital di Ematologia pediatrica all’ospedale San Gerardo di Monza, un monito: «Mai rinunciare alla speranza, è fondamentale quando le cose vanno bene e lo è a maggior ragione quando non vanno bene perché è il solo modo per andare avanti. E non dimenticare che i bambini hanno bisogno di capire e debbono essere lasciati da soli a parlare con i medici perché la presenza dei genitori, carichi di emozioni, impedirebbe di ascoltare e comprendere». Toccherà al medico trovare le parole.