Terapia intensiva pediatrica: le famiglie al centro della cura
Come vi immaginate un reparto di terapia intensiva? Che cosa lo caratterizza? La presenza di strumenti ad alta tecnologia e di «barriere» è probabilmente la risposta più ovvia, ma quelle barriere, che sono di spazio, ma anche di tempo ( quanto è concesso restare vicino a un familiare, a un bambino?), sono davvero indispensabili per proteggere i malati? «Già nel 2002 — ricorda Alberto Giannini, responsabile di Terapia intensiva pediatrica alla Fondazione Ca’ Granda - Policlinico di Milano — Hilmar Buchardi, presidente della Società europea di terapia intensiva, affermava che era tempo di aprire le porte...». Numerosi studi indicano che, mostrando rispetto per il luogo in cui si trova e prendendo semplici precauzioni, come lavarsi le mani ( senza necessità di indossare indumenti protettivi) non solo le infezioni tra i degenti non aumentano, ma migliorano gli indici di ansietà e si riducono perfino le complicazioni cardio-vascolari.
«Per un terzo dei piccoli pazienti — ricorda Giannini — la separazione dai parenti è la terza causa di sofferenza ( vedi grafico a fianco ndr) e i genitori patiscono per la perdita di ruolo e dell’intimità fisica con il bambino. Ma non è solo questione di porte, l’apertura dei reparti si gioca anche sul piano della comunicazione. Quello che deve cambiare è il modello di cura che deve essere family centred. Il bambino non soffre da solo, accanto a lui c’è un mondo di affetti che entra in sofferenza e anche se in queste situazioni lo psicologo ha un ruolo fondamentale il medico non può delegargli la relazione. La presa in carico del paziente deve essere totale».