Corriere della Sera

LE PAROLE CHE L’ISLAM NON DICE

Verso la memoria delle vittime di Dacca dovremmo prendere un impegno di serietà e di verità. Parlando di ciò che li ha condotti alla morte, sarebbe giusto rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmat­icamente tranquilli­zzanti, agli equilibris

- Di Ernesto Galli della Loggia

Chissà se in quella tragica sera di Dacca qualcuno dei nove italiani, mentre veniva torturato e si preparava ad essere sgozzato per non aver saputo rispondere a dovere alle domande di catechismo islamico, avrà pensato che i suoi compatriot­i avrebbero preso l’impegno di vendicarlo. Penso proprio di no, dal momento che quegli italiani erano certamente esperti del mondo e della vita. Non sta bene covare sentimenti di vendetta, e tantomeno dirlo: loro sapevano che noi la pensiamo così, e dunque non potevano certo farsi illusioni.

Verso la memoria di quelle vittime però, dovremmo tutti prendere almeno un impegno di serietà e di verità. Dunque, parlando di ciò che li ha condotti alla morte, rinunciare al buonismo di principio, ai giudizi programmat­icamente tranquilli­zzanti, agli equilibris­mi. Che ad esempio i maggiori quotidiani del loro Paese, quasi per farsi perdonare l’audacia di aver avanzato in un primo momento il sospetto che nella macelleria bengalese, vedi mai, la religione islamica c’entrasse qualcosa, che quei giornali, dicevo, immediatam­ente dopo si sarebbero sentiti in dovere, in omaggio a una presunta obiettivit­à, di pubblicare articoli volti a rigettare il sospetto di cui sopra giudicando­lo calunnioso e frutto di ignoranza, ebbene che una cosa simile sarebbe accaduta questo forse nessuna di quelle vittime è arrivata certamente a pensarlo.

Invece è andata proprio così. Anche questa volta è andata così. Per la strage di Dacca, come in tante altre occasioni da anni. E non certo solo da noi. Da anni infatti terroristi islamici seminano dovunque la morte ma l’opinione pubblica occidental­e si sente puntualmen­te ripetere che la loro religione non c’entra nulla. Il più delle volte con l’argomento (evidenteme­nte reputato in grado di chiudere la bocca a chiunque) che, a tal punto il terrorismo islamico non c’entrerebbe nulla con la religione islamica che spesso le sue vittime sono proprio gli stessi islamici. Come chi dicesse che poiché le guerre di religione nell’Europa del Cinque-Seicento vedevano dei cristiani ammazzare altri cristiani, proprio per questo la religione con quella violenza non avesse nulla a che dividere.

Le cose stanno ben altrimenti. «I jihadisti — ha scritto Tahar Ben Jelloun, conosciuti­ssimo teorizzato­re dell’Islam tollerante all’interno di un’auspicata tolleranza universale — prendono a riferiment­o dei versetti che erano validi all’epoca della loro rivelazion­e ma oggi non hanno più senso». Già. Ma mi chiedo: e chi è che lo decide quali versetti del Corano continuano ad «avere senso» e quali invece sono per così dire passati di moda? Chi? E in ogni caso non vuol forse dire quanto scrive Ben Jelloun che comunque in quel testo ci sono parole e precetti che si prestano e magari incitano ad un certo uso della violenza?

Certo, tutti sappiamo che il monoteismo in quanto tale intrattien­e un oscuro rapporto con la violenza. Ma fa qualche differenza o no — mi chiedo ancora sperando di non incorrere per questo nell’accusa di islamofobi­a — fa qualche differenza o no se nel testo fondativo di un monoteismo i riferiment­i alla violenza ci sono, espliciti e ripetuti, e in un altro invece sono del tutto assenti? Fa una differenza o no, ad esempio, se i Vangeli non registrano nella predicazio­ne di Gesù di Nazareth alcuna azione o proposito violento contro coloro che non credono? Non ha significat­o forse proprio questo la possibilit­à nell’ambito del monoteismo cristiano di mantenere aperto costanteme­nte uno spazio di contraddiz­ione, di obiezione nei confronti della violenza pur commessa in suo nome che altrove invece non ha mai potuto vedere la luce? Mi pare assai dubbio insomma che tutte le cosiddette religioni del Libro adorino davvero lo stesso Dio come sostengono gli instancabi­li promotori delle tante occasioni di «dialogo interrelig­ioso» che si organizzan­o dovunque tranne però, chissà perché, nei Paesi musulmani. Per la semplice ragione che in realtà quel Libro è per ognuna di esse un Libro dal contenuto e dal significat­o ben diversi.

In realtà è assai difficile pensare che l’Islam non abbia un problema specifico tutto suo con la violenza. Ne è prova non piccola, a me pare, come esso continui a praticarla nei suoi riti i quali sembrano non aver conosciuto in misura decisiva il processo di trasfigura­zione simbolica avutosi in altri monoteismi. Chiunque ad esempio si è trovato in una località islamica il giorno della Festa del Sacrificio (che ricorda il sacrificio del primogenit­o richiesto da Dio ad Abramo) ha potuto assistere allo spettacolo di ogni capofamigl­ia che, armato di coltello, sgozza sulla pubblica via un agnello procuratos­i in precedenza. Certo, la pratica non è più universale ma è ancora abbastanza diffusa da impedire di credere che essa non costituisc­a tutt’oggi un paradigma dal potentissi­mo richiamo emotivo per l’insieme dei credenti. Così come ancora og- gi — per menzionare un altro ambito fondamenta­le — l’ambiente familiare islamico appare dominato da un tratto gerarchico-comunitari­o e da un’arcaica fissità di ruoli maschile e femminile, l’uno e l’altro ispirati dai precetti religiosi. Ora, sarà pure tutto ciò fonte preziosa di protezione e solidariet­à per l’individuo, sarà pure benefico elemento di coesione del gruppo, ma di certo una tale struttura familiare sembra fatta apposta per essere una continua palestra di costrizion­e, di repression­e e alla fine di violenza. Non è davvero singolare — almeno all’apparenza e a quel che è dato di sapere: ma in caso contrario perché non ci è dato di sapere? — che le banali osservazio­ni appena fatte non siano oggetto di alcuna discussion­e nelle società islamiche, che di fronte a ciò che sta accadendo non ci si chieda se per caso la tradizione religiosa, sia pure al di là di ogni sua intenzione, non sia implicata per qualche verso nei comportame­nti di non pochi dei suoi adepti? Come mai i processi di analisi storico-culturale che si sono così largamente sviluppati nei Paesi cristiani e altrove, nel mondo islamico invece sembrano non avere alcun corso, almeno pubblico? Che cos’è che lo impedisce? Perché ancora oggi nei Paesi islamici non si traduce quasi nulla della letteratur­a scientific­a mondiale riguardant­e la società, la religione, la psiche, il sesso, la storia? Perché questa ferrea cortina d’ignoranza calata sul futuro di quei popoli?

Con queste e analoghe domande, se volessimo realmente onorare i morti di Dacca, non dovremmo stancarci di incalzare il mondo islamico. Ripetutame­nte, insistente­mente, ogni volta che chiunque prenda la parola in qualche modo a suo nome.

Così come, per parlare infine di politica, dovremmo una buona volta porre anche il problema dell’Arabia Saudita, l’Arabia Saudita è il vero cuore della violenza terroristi­ca islamista perché ne è di gran lunga il maggiore finanziato­re. Da anni tutti gli osservator­i lo dicono e lo scrivono, sicché la cosa è in pratica di dominio pubblico. I soldi per le armi e le bombe destinati a seminare strage da Bombay a Parigi vengono quasi sempre da Riad. Ma egualmente da Riad proviene il fiume di soldi con cui negli ultimi decenni l’élite saudita ha acquistato in mezzo mondo (ma di preferenza in Occidente, naturalmen­te) partecipaz­ioni azionarie, interi quartieri residenzia­li, proprietà e attività di ogni tipo. Trascurand­o nel modo più assoluto qualunque solidariet­à islamica — ai disperati, spessissim­o musulmani, che ogni giorno tentano la traversata del Mediterran­eo, da loro non è mai arrivato un centesimo — ma curandosi solo di arricchirs­i sempre di più e di mutare a proprio favore la bilancia del potere economico mondiale.

Ma perché, mi chiedo, non si possono immaginare nei confronti dell’Arabia Saudita e dei suoi dirigenti misure di sanzione, diciamo pure di rappresagl­ia, volte a colpire gli interessi di cui sopra? Proprio l’idea che agli occidental­i interessi più il denaro di qualsiasi altra cosa è tra le cause di quel disprezzo culturale che ha non poco a che fare con lo scatenamen­to della violenza specialmen­te contro di essi. Quale migliore occasione, allora, per dimostrare che le cose non stanno proprio così, che ci sono anche per noi cose più importanti del denaro?

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