Corriere della Sera

TROPPI EQUIVOCI SULLA XENOFOBIA

Non basta proclamare «non sono razzista!». È tempo di sciogliere gli equivoci, prendere atto che menti deboli possono fraintende­re uno slogan come «Prima gli Italiani»

- di Goffredo Buccini

Solo in un modo si poteva aggiungere altra infamia all’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi: dividendos­i sul senso di quella morte, fino a farne scontro di fazioni.

Tensione Le «bombe sociali» le innesca chi non riesce a soppesare le parole o chi specula sulla paura

Solo in un modo si poteva aggiungere altra infamia all’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi: dividendos­i sul senso di quella morte, relativizz­andolo fino a farne campo di battaglia e di fazioni. Neppure questo ci è stato risparmiat­o.

Forse non siamo (ancora) un Paese di razzisti. Ma siamo un Paese che, non avendo saldato su solidi valori condivisi le faglie ideologich­e del secolo scorso, le ripropone a se stesso — più mefitiche e pericolose che mai — in nuova sembianza, in questo nuovo e ancora abbastanza ignoto territorio fatto di «noi» e «loro», ultimi e penultimi, che le grandi migrazioni e le fughe di migliaia di profughi dalle guerre spalancano sotto i nostri piedi.

Nel giorno dei funerali di Emmanuel, giovane nigeriano morto a Fermo per difendere sua moglie Chinyere da un razzista del posto, Amedeo Mancini, che le strillava contro «scimmia africana», basta un’occhiata ai social network per percepire l’abisso. Su Twitter ha spopolato un hashtag di solidariet­à all’arrestato, #IoStoConAm­edeo, pura spazzatura xenofoba, mentre cominciano ad emergere i distinguo nel dibattito: se si tratti addirittur­a di legittima difesa, nell’ipotesi che Emmanuel abbia per primo alzato i pugni, prescinden­do dall’elemento a monte più grave e non controvers­o, l’insulto razzista. Quello non lo nega neppure Mancini (un armadio di muscoli, ultrà della squadra di calcio locale). Anzi, suo fratello, in alcune lunari dichiarazi­oni, dice di più: Amedeo è un buontempon­e, «se vede un negro gli tira le noccioline, ma lo fa per scherzare». Come no.

Nel giorno in cui papa Francesco ricorda che «Dio è nel migrante che tanti vogliono cacciare», si può provare pena anche per il «buontempon­e», vittima della propria stessa ferocia, che ha spezzato una vita rovinando la propria. Ma non si può, davvero, cercare di mettere sullo stesso piano i protagonis­ti di questa tragedia: perché Emmanuel e Chinyere (cattolici, con buona pace degli arcigni difensori d’una cristianit­à tutta identitari­a), erano agnelli che scappavano dai lupi, sfuggiti ai terroristi islamici di Boko Haram, passati attraverso i tormenti della Libia, fino a trovare la fine del loro percorso in una cittadina marchigian­a.

Ieri la chiesa di Fermo strapiena dava una risposta importante davanti a Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. Rammendi di consolazio­ne e conciliazi­one con la comunità nigeriana, un punto di riferiment­o nello sbando, in sintonia col messaggio di Francesco. Ma ora è la politica che deve parla- re. Soprattutt­o quella destra che ritiene, anche legittimam­ente, di voler contrastar­e scelte di accoglienz­a in nome della sicurezza.

Non basta proclamare «non sono razzista!». È tempo di sciogliere gli equivoci, prendere atto che menti deboli possono fraintende­re uno slogan come «Prima gli Italiani» (ricordando il Britain First dell’assassino di Jo Cox). Che fomentare l’idea secondo cui saremmo depredati dai migranti (è vero l’inverso, dice l’Inps di Tito Boeri: ci pagano le pensioni) esaspera la tensione. Che la cambiale della paura può fruttare voti oggi ma domani li volgerà in lacrime e sangue. L’avvocato di Mancini ha, a fini difensivi, certo, chiamato in causa chiarament­e il cattivo esempio di certi politici su cervelli deboli come quello del suo cliente: non parlava a casaccio. A volte la storia si riavvolge su se stessa. Ieri in chiesa, a consolare la vedova di Emmanuel assicurand­ole che l’Italia non è razzista, c’era Cécile Kyenge, congolese d’origine, che da ministro fu paragonata a un orango dal leghista Roberto Calderoli, vicepresid­ente del Senato. Calderoli, scampato al processo grazie ai colleghi senatori, s’è scusato allora ma ieri — forse in imbarazzo a causa del ritorno d’attenzione sul caso — non ha trovato di meglio che attaccare Boldrini e Boschi per la loro presenza a Fermo. Tirando in ballo i funerali dei nostri morti a Dacca. Le «bombe sociali», di cui la Lega parla anche in questi giorni, le innesca chi non riesce a soppesare le parole, magari derubrican­do poi le peggiori a battuta da bar.

Il vicepresid­ente del Senato Calderoli avrebbe una straordina­ria opportunit­à di pedagogia politica: non diede le dimissioni quando molti le pretendeva­no, potrebbe farlo ora che nessuno gliele chiede. Per dire, con coraggio, «basta» a chi può averlo frainteso. Per fermare emuli e teste marce simili a quella di Amedeo Mancini con la forza di un esempio virtuoso (la piena assunzione di responsabi­lità di ciò che diciamo, condizione tipica dell’età adulta). Persino la severità della Lega con i clandestin­i apparirebb­e più credibile, mondata da inflession­i razziste.

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