«Io, figlia di torero sogno un Paese senza più corrida»
«Questa morte atroce dimostra tutta la barbarie della cosiddetta fiesta nacional» vibra di indignazione da Madrid la voce di Rosa Montero, affermata scrittrice spagnola di romanzi pubblicati anche in Italia da Salani, come «Lacrime nella pioggia», «La pazza di casa», «Notturno di sole».
Per lei la corrida non è una tradizione aliena: suo padre, Pascual Montero, «El señorito», era un giovane banderillero molto conosciuto e applaudito nelle plazas di Madrid, Saragozza, Siviglia e Barcellona degli anni ‘30. Dunque?
«Dunque la società spagnola adesso è molto più civile. È cresciuta e ha superato questo livello di barbarie e di violenza. Sì, erano molti anni che un torero non moriva in una corrida, in Spagna, ma ogni anno ci sono toreri incornati e feriti gravi. È uno spettacolo barbaro, paragonabile alla lotta dei gladiatori. E poi, io la penso come Gandhi: la civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali». Non è mai andata a vedere una corrida?
«Sì, ci sono andata. Da piccola mi portavano a vederla, ma a 14 anni non ci sono più voluta andare. Sono tornata una volta soltanto, a 20, per vedere che effetto mi avrebbe fatto e ho deciso che non mi piaceva». Ha prevalso l’amore per gli animali?
«Può sembrare strano, ma l’amore per gli animali me l’ha insegnato proprio mio padre. Non bisogna stupirsi: succede spesso con i toreri. Non sono tutti dei sadici. Non credo che a loro piaccia torturare gli animali. Semplicemente penso che la società spagnola sia progredita in tutti questi anni». Il pubblico è più sensibile?
«Fino al 1928 i cavalli dei picadores non portavano la pettorina protettiva e a ogni corrida
tre o quattro di loro venivano sventrati dalle corna del toro, portati fuori con le budella all’aria, ricuciti in qualche modo e rimandati subito nell’arena. Quando fu introdotto l’obbligo del materassino di protezione, il più grande intellettuale spagnolo dell’epoca, Ortega y Gasset tuonò che terminava così l’autenticità de las fiestas de los toros. Se ora ripristinassero quell’autenticità che gli era tanto cara, la plaza vomiterebbe dall’orrore». Eppure la corrida è ancora la festa nazionale spagnola.
«No, non lo è. Non ne abbiamo bisogno. Abbiamo migliaia di altre feste. Il mondo taurino è una minoranza. Solo il 33 o 35 per cento degli spagnoli è a favore. E si scende al 15% tra i giovani di meno di 25 anni». Perché piace a un terzo degli spagnoli?
«È il fascino di una liturgia di morte. So che i toreri ammirano i tori. La considerano una sfida alla pari. Mio padre toreava quando ancora non esisteva la penicillina e ogni anno morivano dai due ai 15 toreri per le ferite infette». Ha mai visto suo padre nell’arena?
«No, ai miei tempi la famiglia era esclusa. Sulle gradinate andavano le amanti. Adesso è tutto cambiato». E questa morte che cosa cambierà?
«Non cambierà niente, ma è un passo in più verso la fine di tanta inutile violenza. Mi immagino una Spagna senza toreri, entro trent’anni».