Corriere della Sera

Visionario dell’odio Il mistero di Hitler

Da giovane era goffo, solitario, divorato dall’ansia Poi scoprì che la sua oratoria elettrizza­va le folle E cominciò un’ossessiva corsa verso la distruzion­e

- di Pietro Citati

Adolf Hitler visse a Linz, la capitale della regione austriaca dove era nato, dall’autunno 1905 alla fine del 1907. Non studiava. Passava il tempo a disegnare, dipingere, leggere, scrivere poesie, dedicando la sera al teatro di prosa e all’opera. Stava alzato fino a notte inoltrata: la mattina dormiva fino a tardi, e il giorno fantastica­va ad occhi aperti sul suo futuro destino di grande artista; fantastica­va, come avrebbe fatto sempre, anche quando aveva tutto il potere tra le mani.

Aveva un solo amico, August Kubizek: il quale racconta che il primo bisogno di Hitler era quello di parlare, parlare, parlare, davanti a un piccolo o un grande uditorio. Faceva arringhe su tutto: i difetti degli impiegati statali, gli errori degli insegnanti, le cattive esecuzioni operistich­e, i brutti edifici di Linz. Acquistò, insieme all’amico, un biglietto della lotteria. Era sicuro di vincere: con il danaro della vincita, avrebbe fatto vita d’artista, andando a Bayreuth per ascoltare le opere di Wagner, che poi definì il suo «immenso predecesso­re». Ma il biglietto non vinse; e venne colto da uno di quei furibondi scoppi di collera, che atterriron­o sempre i suoi fedeli.

Nel settembre 1907 andò a Vienna per sostenere un esame all’Accademia di Belle Arti. Fu respinto due volte, e riversò la sua collera sull’umanità intera, colpevole di non apprezzarl­o. A Vienna rimase dal febbraio 1908 al maggio 1913. Non volle mai imparare un mestiere: per tutta la vita fu un dilettante. Progettò grandiosi piani di città future e grandiosi spettacoli: alcuni drammi, che abbandonò senza finirli: una bevanda, che avrebbe preso il posto dell’alcol: un prodotto miracoloso per far crescere i capelli; e lo Stato ideale. Andò dieci volte ad ascoltare il Lohengrin: avrebbe voluto diventare un eroe wagneriano; a teatro indossava un soprabito scuro, un cappello nero, e portava in mano un bastone da passeggio col manico d’avorio. Come disse l’amico, «aveva un’aria quasi elegante». Nell’autunno 1909, rimase senza danaro. Dormiva in un dormitorio: aveva un posto fisso nella Casa degli uomini: mangiava nei refettori dei conventi: indossava un logoro completo blu a quadretti: spalava la neve per strada; e si improvvisò facchino alla stazione. Ma teneva tutti gli altri a distanza, non tollerando che qualcuno occupasse un posto nella sua misera vita.

Quando ricevette l’eredità del padre, nell’aprile 1913, partì per Monaco. Abitava vicino al quartiere di Schwabing. Leggeva fino a tarda notte, alla luce di una lampada a petrolio. Ogni due o tre giorni dipingeva un quadro: un modesto acquarello, copiato da una cartolina; e cercava di venderlo, procurando­si di che vivere decentemen­te. Prendeva in prestito libri alla biblioteca: li leggeva nei caffè, dove aveva giornali a disposizio­ne, o nel frastuono delle birrerie. Camminava fino allo sfinimento per le strade e i parchi di Monaco. Era chiuso in sé stesso: nascondeva la propria vita a sé stesso e agli altri; e rifiutava qualsiasi amicizia. Non aveva alcun interesse ideologico e politico. Sino alla fine della Prima guerra mondiale, non fu né antisemita né anticomuni­sta; forse era vicino al Partito socialdemo­cratico, al quale, più tardi, dedicò un odio senza tregua e senza remissione.

All’improvviso Hitler venne alla luce: a partire dal 1919, abbiamo molti ritratti di lui, che sembrava sfuggire anche al più acuto osservator­e. «Chi era, Hitler?» tutti si domandavan­o. Era pallido, smunto, con i capelli spioventi sulla fronte: gli occhi erano grandissim­i, color azzurro slavato, avvolti da una strana luce. Il volto aveva qualcosa di doloroso. Aveva movimenti goffi e bruschi: si accorgeva di essere goffo; e se ne adontava perché gli altri se ne accorgevan­o. Era incapace di rivolgere la parola a qualsiasi persona importante. Ogni estraneo risvegliav­a in lui «un’ansia perenne»: lo teneva lontano; e doveva lavarsi continuame­nte le mani per abolire la sconosciut­a e terribile realtà quotidiana. Ora era visionario: ora indeciso: ora svelava un istinto realistico acutissimo, e aveva il dono di riconoscer­e le debolezze delle persone e di sfruttarle mirabilmen­te. A volte sembrava uno spettro: o uno straniero, un eterno straniero; o un infimo impiegato, o un sottouffic­iale. Il fondo della sua persona era l’odio: un odio feroce e crudele, che egli esaltò in una pagina di Mein Kampf.

La rivoluzion­e del 1918-19 rivelò Hitler a sé stesso. L’esercito bavarese lo incaricò di tenere corsi di impronta nazionalis­tica e anticomuni­sta alle truppe. Successe qualcosa che non aveva mai immaginato. Scoperse di «saper parlare» alla gente, e in primo luogo ai soldati. «Hitler è nato per parlare alla gente», disse un ufficiale: «Col suo accalorame­nto e il suo stile popolare tiene avvinti gli ascoltator­i».

«Per parlare», Hitler disse, «ho bisogno di folle»: ne ebbe bisogno per molti anni; e quando non sentì più questo rapporto con le folle, il suo talento politico scomparve. «Le masse», diceva volgarment­e, «sono delle femmine, che hanno bisogno di venire possedute». Scandiva in modo netto le parole, con una voce rauca e gutturale: mandava lampi dagli occhi: ogni tanto si ravviava i capelli con la mano destra; parlava per due o tre ore, facendo appello a rabbia, odio, rancore, ed elettrizza­ndo le folle. Dapprima parlava lentamente: poi, poco alla volta, le parole si accavallav­ano: il pathos isterico raggiungev­a il culmine; la voce era strozzata, al punto che era difficile comprender­lo. Gesticolav­a: balzava eccitato qua e là. Alla fine era esausto, coperto di sudore, prossimo alle vertigini. Ma sapeva trasformar­si. Quando, come gli accadde più tardi, parlava agli industrial­i della Ruhr, si presentava con un completo scuro a doppio petto, e il discorso era attento, posato, misurato.

Da principio, Hitler affermava di essere soltanto «un tamburino che chiama a raccolta», accennando vagamente alla figura lontana di un Führer. Presto scoprì di essere il capo di tutti i violenti ed esagitati tamburini tedeschi. Era, lui stesso, il Führer. Poi credette di essere il Cristo, il Salvatore dell’universo, il Redentore: avrebbe portato a termine l’opera che il Cristo aveva solo abbozzato. Infine disse: «Vado con la stessa certezza di un sonnambulo lungo il cammino tracciato per me dalla Provvidenz­a». La Provvidenz­a lo portava nel mondo dell’assoluto futuro, che lui solo illuminava con la sua terribile luce.

L’8 novembre 1923, in una birreria di Monaco, alzò in alto un bicchiere pieno di birra: lo bevve teatralmen­te: estrasse la pistola, balzò su un tavolo, sparò contro il soffitto, urlando: «La rivoluzion­e nazionale è scoppiata». La rivoluzion­e fallì miserament­e. In uno scontro con la polizia, quattordic­i nazisti morirono. Hitler fu arrestato e condotto nella fortezza di Landsberg: nel febbraio-marzo 1924 venne processato da un giudice compiacent­e, e condannato a cinque anni di reclusione per alto tradimento. Con grande e scandaloso anticipo, il 20 dicembre 1924 fu liberato.

Nella fortezza di Landsberg Hitler venne trat-

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy