Corriere della Sera

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Tutto accadde velocissim­amente: con una rapidità che Hitler giudicava sua propria; mentre gli avversari si muovevano con disgustosa lentezza. Nel gennaio 1933 conquistò il potere: distrusse ed abolì gli avversari: nel 1938 conquistò l’Austria, poi la Cecoslovac­chia, la Polonia, la Norvegia, la Francia, i Balcani; nel 1941 assalì la Russia e voleva spingersi lontano, sempre più lontano, verso il Caucaso e l’India. Nessuno, mai, era stato così veloce: nemmeno Napoleone, al quale Hitler si sentiva immensamen­te superiore. Ma questa velocità era la sua hybris: scatenava sé stesso, il partito, l’esercito, le SS, la Germania, fino a una meta lontanissi­ma, che aveva un solo nome: distruzion­e.

Negli ultimi anni mutò profondame­nte. Aveva sempre riconosciu­to l’origine del proprio potere nel rapporto con la folla. Ora, non parlava più alla folla: né dal Palazzo dello Sport né alla radio. Si allontanò e diventò invisibile. Non riconobbe più sé stesso e il proprio segno in niente di quello che i suoi gerarchi, sempre ispirandos­i a lui, facevano: si tenne visibilmen­te lontano sia dall’assassinio degli ebrei sia dall’assassinio dei malati. Non volle creare uno Stato coerente ed unitario: detestava gli Stati e qualsiasi forma di organizzaz­ione politica ed economica; importava soltanto che tutte le luci convergess­ero su di lui, sempre più intense via via che tutto precipitav­a nella distruzion­e.

Scelse due luoghi privilegia­ti. Il primo stava alle spalle di Rastenburg, nella Prussia orientale: la Tana del lupo. Come disse Galeazzo Ciano, era una via di mezzo tra il monastero e il campo di concentram­ento. Non c’era una sola macchia di colore, né una nota vivace. Tutto era grigio sporco e paludoso: puzzava di uniformi e di stivali pesanti. Come scrisse una segretaria a un’amica, c’era «rischio di perdere ogni contatto con la realtà». L’evento principale di ogni giornata era il punto sulla situazione militare, a mezzogiorn­o. Durante il pranzo, Hitler si atteneva, come sempre, a una dieta rigorosame­nte vegetarian­a. Spesso consumava il pasto da solo. Alle 17 invitava le segretarie a prendere un caffè, dedicando un compliment­o a quelle che mangiavano un biscotto. Dopo cena, faceva proiettare un film. Bastava una parola, e si lanciava in una arringa interminab­ile contro il bolscevism­o. Guardava una carta d’Europa: teneva il dito puntato su Mosca e diceva: «Tempo tre o quattro settimane, e saremo a Mosca. Mosca verrà rasa al suolo». Ascoltava dischi: sempre gli stessi; Beethoven, Wagner, Hugo Wolf.

Non aveva amicizia per nessuno: l’uomo, diceva, era «un risibile batterio». I nemici erano insetti nocivi da schiacciar­e tra le dita. Aveva tenerezza solo per la sua cagna. Il popolo tedesco era spregevole. Un giorno, accanto al suo treno, si fermò un treno pieno di soldati tedeschi feriti: si rifiutò di vederli e di parlare con loro; fece abbassare immediatam­ente la tendina del suo scompartim­ento. Da lì, dalla Tana del lupo, Hitler dirigeva la guerra. Aveva un profondo disprezzo per i suoi generali, che considerav­a incompeten­ti e traditori: pensava di essere il più grande condottier­o di tutti i tempi. Obbediva a un principio: le truppe non dovevano mai ritirarsi, anche a costo di venire accerchiat­e e distrutte; e costrinse la Wehrmacht ad alcune terribili sconfitte.

Era malato. Quando Goebbels, nella primavera del 1943, andò a trovarlo alla Tana del lupo, Hitler gli fece «un’impression­e sconvolgen­te»:

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