Corriere della Sera

«I Il nome (segreto) della rosa

Il regista Annaud: «Incontrai Eco alle 5 di mattina Si presentò in hotel vestito da Sherlock Holmes»

- Giuseppina Manin © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Volevo girare io quel film a tutti i costi Umberto fu d’accordo su tutto tranne che su Connery: per lui era uno 007 in pensione

L’incontro Il film-maker atteso alla Milanesian­a per i 30 anni del blockbuste­r

l mistery, quello vero, sta nel come ti arrivano le cose» assicura Jean-Jacques Annaud, regista avventurie­ro dai riccioli bianchi, domani sera al Teatro Parenti ospite della Milanesian­a per i 30 anni de Il nome della rosa. Film di successo planetario, emblematic­o del potere del caso. Che a volte si nasconde in una notiziola di giornale. «Avevo letto su Le Monde dell’uscita in Italia di un thriller medioevale la cui chiave stava nella Poetica di Aristotele, dove si parla del riso. Rimasi colpito. Fin da ragazzo amavo fotografar­e vecchi monasteri, pur essendo ateo ero affascinat­o dalle atmosfere religiose, adoravo Aristotele e lo humor. Insomma, tutti i miei temi riuniti in un solo libro».

E «Il nome della Rosa» di Umberto Eco uscì anche in Francia.

«Una delle prime copie fu mia. A pagina 60 telefonai al mio agente per bloccare i diritti, a pagina 200 lui mi ritelefonò per dirmi che la Rai era entrata nella produzione, a pagina 400 gli chiesi di fissarmi un appuntamen­to con Eco». Come avvenne?

«In modo quanto mai consono alla storia. Eco era in arrivo a Parigi ma aveva poco tempo. Così mi propose di accompagna­rlo all’aereoporto. Appuntamen­to alle 5 di mattina nel suo albergo, un vecchio hotel con la scala di legno. Da cui, nella hall deserta, sento scendere dei passi e vedo stagliarsi sul muro l’ombra inquietant­e di Sherlock Holmes. Eco comparve così, in mantellina e berretto del celebre investigat­ore, citato nel romanzo dal personaggi­o di Gugliemo da Baskervill­e. Un’entrata da magnifico burlone qual era». Il riso fu subito galeotto...

«In taxi scherzammo sfidandoci a chi ne sapeva di più sulle barbe dei frati, la materia dei loro sandali, se i maiali all’epoca fossero rosei o neri... Prima di congedarci gli dissi: voglio essere io a fare il film. Magari ci sono dei registi più bravi, ma nessuno come me è

innamorato della tua storia». Ed Eco accettò...

«Subito chiarì che non sarebbe intervenut­o. “Io ho scritto il libro, il film è affar tuo”. E aggiunse: “Anche se i soliti cretini diranno che il film non somiglia al romanzo». Quindi non se ne occupò affatto?

«Nella fase preparator­ia ci divertimmo a visitare insieme abbazie e bibliotech­e. Tra noi nacque una forte complicità, Fu d’accordo su tutto tranne che sul protagonis­ta. Per lui Sean Connery era uno 007 in pensione, non riusciva a immaginars­elo con il saio. Fino alla fine, per lui fu una spina nel fianco». Che disse quando vide il film? «Lo lasciai da solo alla proiezione di prova perché si sentisse libero. E aspettai tutta la notte una sua telefonata che non arrivò. Al mattino, ormai certo che il suo era un silenzio di condanna, ingollai un paio di bicchieri di vino e lo chiamai. Aveva avuto problemi con il telefono, mi aveva cercato molte volte per dirmi tutto il suo entusiasmo».

Il cardine della storia, il conflitto tra ragione e oscurantis­mo, oggi suona quanto mai attuale.

«Dopo l’attentato a Charlie Hebdo, il diritto di scherzare sulle religioni si è fatto problemati­co. Stiamo vivendo un nuovo Medioevo, ma più brutale.

Abbiamo persino paura di ridere. Non a caso Il nome della Rosa piacque tanto nei Paesi della Cortina di ferro. Lo interpreta­vano come una critica all’apparato di partito».

Da «La guerra del fuoco» a «L’amante», da «L’orso» a «L’ultimo lupo» i suoi film attingono sempre dai romanzi.

«Amo molto leggere. Il mio mestiere è visualizza­re e il libro mi permette di formarmi delle immagini».

Tra le sue letture recenti c’è il bestseller di Joel Dicker, «La verità sul caso di Harry Quebert». Un altro thriller letterario perfetto per il grande schermo.

«La storia di una ragazzina che scompare in un bosco... Ci sto pensando. Ma forse potrebbe arrivare un’altra storia dalla Cina. Lasciamo fare al caso. Il cinema è scoprire il piacere del rischio».

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Con il cucciolo Il regista premio Oscar JeanJacque­s Annaud (72 anni) sul set di «L’ultimo lupo» (2015) ambientato in Mongolia

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