Cirino Pomicino: perché votare «no» al referendum
Siamo cresciuti in un partito che ci ha insegnato la saggezza del dubbio e il rifiuto dell’orgoglio delle certezze, un modello di valutazione virtuoso che deve essere seguito a maggior ragione quando c’è un referendum popolare sulla riforma della Costituzione. A quel modello ci atterremo in queste poche righe, con l’aggiunta di una visione d’assieme senza la quale si rischia di non vedere gli effetti politici, economici e sociali di una riforma costituzionale che cade in un contesto che ha già visto approvato una legge elettorale senza precedenti in Europa. Ma veniamo al dunque fermandoci sugli aspetti essenziali. Contrariamente a quel che si dice il bicameralismo perfetto non viene abolito, ma modificato perché rimane in tutte le leggi costituzionali e di riforma ordinamentali di un settore oltre alla possibilità per il Senato lillipuziano di chiedere alla Camera di modificare le leggi ordinarie rileggendole più attentamente. Ma ciò che taglia la testa al toro e ci suggerisce il «no» sono gli effetti democratici del combinato disposto tra riforma costituzionale e legge elettorale. Se dovesse, infatti, vincere il «si» gli italiani non voterebbero più né i senatori, né la metà (forse anche la maggioranza) dei deputati, perché i primi saranno nominati dai consiglieri regionali in base agli accordi tra i partiti e i secondi saranno nominati dai segretari di partito con i famosi capilista bloccati. Saremo insomma un popolo bue che viene ritenuto non idoneo a scegliere oltre il 60% dei propri legislatori in un sistema politico rappresentato quasi per intero da partiti personali e lideristici adusi più a dividere che ad unire. Ma c’è di più. Il governo del Paese, grazie al premio di maggioranza del 15% nell’unica Camera che dà la fiducia al governo, verrebbe affidato a una minoranza che rappresenterà un terzo dei votanti e sì e no solo un 20% dei cittadini. Qualcuno tra gli amici che sono schierati per il sì possono argomentarci perché un governo di minoranza sostenuto prevalentemente da senatori e deputati, nominati e non eletti, sia compatibile con una democrazia politica di stampo occidentale? Se una democrazia parlamentare è in affanno, la cultura politica offre una risposta democratica con il sistema presidenziale che dà stabilità e forza all’esecutivo e rappresentatività a un Parlamento, entrambi scelti dal popolo. Infine un’ultima domanda. I sostenitori del sì possono spiegarci la differenza che ci sarebbe tra questa nuova democrazia politica disegnata dalla riforma della Costituzione e quella del 1923 quando c’era il Re, il Senato non votava la fiducia e, grazie alla famosa legge Acerbo, la lista che prendeva un voto in più ancorché minoranza aveva la maggioranza assoluta nella Camera dei deputati? A nostro giudizio nessuna; ed ecco il vero motivo per cui sosterremo il «no», perché non vorremmo ritornare a cento anni indietro pensando scioccamente di andare avanti.