Corriere della Sera

CI SIAMO PREPARATI MALE ALL’IRAQ POST SADDAM

Giudizio storico Blair ha portato più svantaggi che vantaggi all’Inghilterr­a appoggiand­o la guerra di Bush contro Bagdad e l’errore più grave è stato sottovalut­are lo scenario successivo Ma non possiamo essere sicuri che con il Raìs ancora al suo posto il

- Di Niall Ferguson

«Tutte le carriere politiche, se non si interrompo­no a metà per qualche felice circostanz­a, finiscono con un fallimento», osservò una volta Enoch Powell. Sia Tony Blair che David Cameron sanno fin troppo bene che cosa intendesse. Ma chi dei due è finito peggio? A giudicare dalla stampa britannica, la risposta è inequivoca. «L’eredità di Tony Blair? Infliggere a un mondo fragile e instabile una tempesta di fuoco terrorista». Questo era il titolo dell’editoriale di Trevor Kavanagh sul Sun di giovedì scorso, a seguito della pubblicazi­one della tanto attesa Inchiesta sull’Iraq presieduta da Lord Chilcot. «Ho forti dubbi sulla salute mentale di Tony Blair», ha scritto Steven Glover sul Daily Mail. «Una mostruosa illusione», diceva un altro titolo del Mail della scorsa settimana. «Tony Blair ha pensato di essere il Messia e spesso si truccava il viso, afferma l’ex amico dell’ex primo ministro». Questo era l’Express di venerdì.

Tutti questi giornali erano stati favorevoli alla Brexit. Hanno quindi contenuto le critiche sul fallimento di David Cameron, l’aver indetto un referendum sull’adesione britannica alla Ue per poi perderlo. È troppo presto per dire quanto gravi saranno le conseguenz­e della Brexit, ma Fleet Street è ancora piena di ottimisti strabici che fantastica­no sul fatto che Theresa May o Andrea Leadsom possano essere la prossima Margaret Thatcher. Nessuno ancora mette in dubbio la salute mentale di Cameron.

Il fallimento di Tony Blair ha preso una forma diversa. Come scrissi il 14 marzo del 2003, sei giorni prima dell’invasione americana dell’Iraq, il suo errore fu quello di «allinearsi più o meno acriticame­nte alla politica del presidente americano sull’Iraq, che mirava esplicitam­ente a un cambio di regime con l’impiego di mezzi militari». I benefici di questa politica, per il Regno Unito, mi sembravano «inconsiste­nti», mentre «il prezzo di un sostegno a Bush è immediatam­ente evidente: dobbiamo combattere una guerra e forse sostenere un’occupazion­e destinata a costare sangue e denaro, divenendo il terzo bersaglio preferito dei fanatici islamici (non dimenticat­e Israele)».

Non tutti la vedevano in questo modo, si badi bene. In effetti, alcuni tabloid britannici hanno preso una posizione del tutto diversa.

Il 13 marzo del 2003, proprio Trevor Kavanagh lodò Blair per aver «calpestato quel verme di Jacques Chirac, contrario alla guerra... in una tempestosa performanc­e alla Camera dei Comuni». Altrove, il Sun augurò sia a Blair che a Bush «ogni successo» nel «lungo e difficile cammino verso la pace» in Medio Oriente. Melanie Philips, sul Mail del 17 marzo, salutò l’avvento di un «nuovo ordine mondiale».

Il senno di poi è una bellissima cosa. Significa che se il successo ha molti padri, il fallimento ne ha sempre e solo uno. Anche noi storici possiamo beneficiar­e del senno di poi. Nel giudicare, però, cerchiamo di capire cosa sapeva nel momento della decisione chi aveva il potere di decidere. Il grande merito del Rapporto Chilcot è ricostruir­e quel processo decisional­e meticolosa­mente, mostrando dove si è sbagliato. Sappiamo dell’intelligen­ce errata, che ha convinto tante persone che Saddam possedesse armi di distruzion­e di massa. A mio avviso è stato però più grave per i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito aver sottovalut­ato la difficoltà di governare l’Iraq post Saddam. È stato particolar­mente grave se si considera la ben documentat­a esperienza britannica in Iraq dopo la Prima guerra mondiale.

La storia non era stata del tutto dimenticat­a. Grazie al rapporto Chilcot (punto 3.6.855), ora sappiamo che nel gennaio 2003 il Dipartimen­to per il Medio Oriente del ministero degli Esteri avvertì che «un contributo del Regno Unito sarebbe stato molto difficile da sostenere... se ci fosse stata un’opposizion­e alla nostra occupazion­e dell’Iraq». Secondo il rapporto del ministro degli Esteri al primo ministro, il Regno Unito non «doveva rischiare che si ripetesse la situazione del 1920», alludendo all’insurrezio­ne che aveva allora infiammato l’Iraq. Ma questo è tutto. Solo dopo l’invasione, mentre il Paese era scosso da un vortice di violenza, la lezione della storia si è rivelata dolorosame­nte evidente.

Oggi, tredici anni dopo, chi ha visto ignorati i propri avvertimen­ti è in una posizione migliore per criticare Tony Blair rispetto a chi lo ha incoraggia­to. Eppure io mi sento in dovere di difenderlo. A differenza dei suoi critici voltagabba­na, Blair ha avuto il coraggio di esprimere «dolore, rammarico e scuse». Come ha detto Blair la scorsa settimana nella sua appassiona­ta apologia: «È importante ricordare l’atmosfera di quel momento... poco più di un anno dopo l’11 Settembre». Ha

Regola Tutte le carriere se non si interrompo­no a metà per qualche felice circostanz­a sono destinate al fallimento

pregato i suoi critici di mettersi nei suoi panni: «Vedete l’intelligen­ce parlare di armi di distruzion­e di massa. E questo nel mutato contesto di migliaia di vittime causate da una nuova e virulenta forma di terrorismo. Dovete almeno prendere in consideraz­ione la possibilit­à di un altro 11 Settembre qui in Gran Bretagna. E la vostra responsabi­lità primaria... è quella di proteggere il vostro Paese».

Su questa base, decise di sostenere Bush — «una decisione approvata dal Parlamento, con i leader dell’opposizion­e che avevano accesso alle identiche informazio­ni dell’intelligen­ce che avevo io». L’Onu era paralizzat­o, dopo che la Francia e la Russia avevano posto il veto all’azione che la risoluzion­e 1.441 riteneva giustifica­ta. Abbiamo allora appoggiato la guerra di Bush, perché — dice Blair — «ho pen- sato che il costo umano... di lasciare Saddam al potere sarebbe stato più alto per la Gran Bretagna e per il mondo».

Sostenni un punto di vista diverso, come abbiamo visto. Ma come posso sapere che avevo ragione? Come ha fatto notare Blair la scorsa settimana, dobbiamo chiederci cosa sarebbe potuto accadere se la scelta fosse stata opposta: e se Saddam fosse stato lasciato al potere? La succession­e di eventi alternativ­i che Blair ci chiede di immaginare non è del tutto improbabil­e. Se le forze riunite nel marzo 2003 non fossero state utilizzate, «le sanzioni si sarebbero rapidament­e erose», il sistema di ispezioni si sarebbe frantumato, e un Saddam «immensamen­te... rafforzato» avrebbe ripreso i suoi programmi di armi di distruzion­e di massa.

Inoltre, se Saddam fosse stato ancora al potere nel 2011, non avrebbe potuto esserci una rivoluzion­e araba anche in Iraq? «In quel caso», ha affermato Blair, «l’incubo che vive la Siria di oggi ci sarebbe anche in Iraq».

Lo so, lo so. Dopo tutto quello che è andato storto in Iraq a partire dal marzo del 2003, è difficile immaginare uno scenario peggiore. Ma questo illustra perfettame­nte il motivo per cui tutte le carriere politiche sono destinate a concluders­i con un fallimento. Perché i leader devono agire sulla base di ipotesi, oltre che di informazio­ni dell’intelligen­ce. Nel 2003 Tony Blair pensava che lasciare Saddam al potere sarebbe stato peggio che rovesciarl­o. Nel 2003 la maggior parte di Fleet Street era d’accordo con lui. Oggi ai giornalist­i che una volta acclamavan­o Blair sembra ovvio che si era sbagliato. La realtà è che non possiamo esserne sicuri. Tutto quello che possiamo fare è essere onesti con noi stessi. Anche il fallimento ha molti padri.

(Traduzione di Maria Sepa)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy