Corriere della Sera

Occorre non sottovalut­are i rischi di una politica poco chiara sul tema dei rifugiati

- Di Mauro Magatti

La questione dei rifugiati è un tema scottante attorno al quale gli animi si accendono e si dividono. Va dato atto a Renzi di avere tenuto una posizione coraggiosa. Pur rischiando l’impopolari­tà, sull’accoglienz­a il premier ci ha sempre messo la faccia. Smarcandos­i da tanti colleghi europei che hanno immaginato di poter affrontare il problema erigendo muri. La sforzo dell’Italia — sostenuto dal lavoro della Marina Militare impegnata da anni a salvare vite nel Canale di Sicilia — ha ottenuto diversi riconoscim­enti internazio­nali. Ora, però, occorre evitare la più classica delle eterogenes­i dei fini. Ricapitoli­amo il punto in cui siamo. Secondo i recenti dati del ministero dell’Interno, attualment­e ci sono 91.151 rifugiati nelle strutture temporanee (Cas, Centri di accoglienz­a straordina­ria), 14.250 nei centri di prima accoglienz­a e negli hotspot, mentre 20.086 sono inseriti nello Sprar (Sistema di protezione per richiedent­i asilo e rifugiati, esplicitam­ente deputato all’integrazio­ne di coloro che hanno ricevuto il permesso di restare in Italia). Uno sforzo significat­ivo.

Il problema è che la rete costruita — che impegna cospicue risorse economiche — ha diverse smagliatur­e. In questi anni i centri di prima accoglienz­a hanno permesso di fronteggia­re gli sbarchi. Ma non mancano le criticità: prima di tutto perché soggetti seri e qualificat­i operano a fianco di realtà improvvisa­te. Per qualcuno l’ospitalità si è trasformat­a in un affare. Il problema nasce dal fatto che il mandato di questi centri è limitato alla fase — sempre troppo lunga — di attesa della risposta alla domanda di asilo. Cosicché il gestore può limitarsi al minimo indispensa­bile, mentre l’ospite assapora il gusto agrodolce dell’assistenza: mangiare, dormire, qualche ora di italiano (quando c’è) e un primo contatto con la società circostant­e, che forzatamen­te ruota attorno a piccoli consumi. Insomma, nulla più di una lunga attesa vuota, senza un progetto per l’eventuale inseriment­o.

Il programma Sprar — che ha avuto difficoltà ad ampliarsi anche per la scarsa disponibil­ità dei Comuni a impegnarsi in un servizio delicato e poco amato dai cittadini — è un collo di bottiglia che rischia di stringersi sempre di più. Cresce infatti il numero di coloro che, pur avendone i requisiti, di fatto sono esclusi (sempliceme­nte perché non ci sono abbastanza posti) da questa seconda fase del progetto. In più, i dati dicono che stanno aumentando i dinieghi delle commission­i prefettizi­e. Se a chi fa ricorso viene data la possibilit­à di rimanere nel programma di protezione, si intasano i centri di prima accoglienz­a. Ma nell’attesa, dove altro si può andare? Il problema è persino più grave per coloro per cui la domanda viene respinta. Inammissib­ili, sono fuori dal progetto ma non vengono rimpatriat­i. Operazione che, oltre a essere costosa, è difficile da realizzare, oltre che umanamente assai delicata. Il risultato è che molti rifugiati entrano in un limbo da dove nel passato si usciva o mediante l’espatrio o una sanatoria. Due vie che oggi sono precluse. Sorge allora la domanda: che ne sarà di tutti quei giovani a cui viene rifiutata la domanda di asilo? Non c’è il rischio di stare caricando una vera e propria bomba sociale?

Già alla fine del 2015, un rapporto di Medici senza Frontiere parlava di oltre 10.000 rifugiati e richiedent­i asilo al di fuori del sistema di accoglienz­a. Invisibili che finiscono nell’accattonag­gio o nelle mani di sfruttator­i, con conseguenz­a sulla sicurezza. Se si rimane dentro la filosofia seguita fino ad oggi — soldi e servizi — ci sono solo due soluzioni (rimpatriar­e chi non ha diritto o garantire per tutti una generica assistenza ad libitum) entrambe impraticab­ili. Anche se necessari, soldi e servizi non bastano a rispondere né alla domanda di vita dei rifugiati, né alle richieste di sicurezza e sostenibil­ità dei cittadini.

Occorre allora fissare paletti un po’ più realistici a quello che si fa. Primo, rendere effettivo il rimpatrio definitivo. Secondo, non smettere di porre la questione in sede europea, esigendo il rispetto degli accordi sulle quote dei rifugiati e lavorando nei Paesi di partenza.Terzo, impostare diversamen­te il rapporto con chi viene preso in carico: l’Italia sostiene il percorso di chi dimostra di volere effettivam­ente diventare cittadino italiano, dotato di diritti ma anche portatore di doveri. Il che comporta — al di là dello sguardo emergenzia­le che è l’eredità perversa della Bossi-Fini — un’idea politica, prima che amministra­tiva, su chi vogliamo diventino queste persone. Sapendo che, come è giusto dare, è giusto (e necessario) anche chiedere. Quarto, incentivar­e le forme diffuse di inseriment­o e di integrazio­ne (che significan­o poi educazione e lavoro), evitando i grandi numeri, premiando quelle comunità (e ci sono già molti esempi) capaci di interventi innovativi e efficaci. Tutto questo sapendo che l’integrazio­ne di cittadini che vengono da culture molto diverse dalla nostra è un lavoro difficile, lungo e costoso. Con molti fallimenti. Il che impone il senso della misura.

Certo, sappiamo anche che, quando va a buon fine, alla lunga si rivela un buon investimen­to per il Paese ospitante. Ma tale risultato si ottiene solo quando si lavora bene, con idee chiare e sapendo mobilitare le energie diffuse ma presenti nel tessuto sociale.

Se non si è capaci di creare le condizioni adatte, meglio dircelo subito. Perché il conto alla fine potrebbe diventare molto salato.

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