Corriere della Sera

La resistenza dei «mandarini» dello Stato

- Di Sergio Rizzo

Immaginiam­o quali critiche arriverann­o a Marianna Madia. C’è chi sosterrà che il governo Renzi vuole assoggetta­re i dirigenti pubblici alle direttive politiche. E chi invece argomenter­à che in questo modo si può vanificare l’esperienza, avvilendo con il ruolo unico le meraviglio­se specificit­à dei nostri burocrati. Né mancherann­o le profezie di una paralisi totale a causa dell’inevitabil­e diluvio di ricorsi che molti staranno già preparando. Un sintomo di ultima resistenza, lo slittament­o a fine mese.

Tutte osservazio­ni che si potrebbero anche prendere in consideraz­ione, se però non si esaminasse con attenzione il punto di partenza. L’inefficien­za del nostro apparato burocratic­o è proverbial­e e il funzioname­nto della dirigenza ne è il principale responsabi­le: senza che le riforme di volta in volta realizzate, a cominciare da quella che porta il nome dell’ex ministro Franco Bassanini, abbiano fatto cambiare davvero passo alla pubblica amministra­zione. Si è assistito a casi di dirigenti rimasti per oltre un decennio a capo del medesimo ufficio, valutati sempre al massimo. Sebbene lo stesso giudizio non potesse certamente valere per l’efficienza dei loro piccoli reami, spesso e volentieri rivelatisi incapaci di offrire ai cittadini risposte concrete e in tempi umani. E con stipendi letteralme­nte

La sufficienz­a Finora solo il 2% non arrivava alla “sufficienz­a”. Cade il tabù dell’inamovibil­ità

astronomic­i, prima che venisse introdotto il tetto del 240 mila euro. Inamovibil­i e intoccabil­i, i nostri burocrati sono stati per generazion­i i padroni della macchina pubblica a ogni livello: statale e regionale, e poi giù giù fino ai Comuni. Non avendo di fatto responsabi­lità corrispond­enti all’importanza del proprio ruolo, grazie a sanzioni inesistent­i. Quanto all’indipenden­za dalla politica, siamo proprio sicuri che le regole attuali l’abbiano garantita fino in fondo? Basta vedere come si costruisco­no certe carriere prefettizi­e, diplomatic­he, sanitarie… Proprio sicuri che la politica non c’entri nulla? Diciamo la verità: era ora che si ponesse fine a questa stagione. Era ora che si mettessero in discussion­e i tabù dell’inamovibil­ità e dell’irresponsa­bilità. Come era ora che si affermasse il principio per cui un dirigente non può restare nel medesimo posto tutta la vita, rischiando serie contaminaz­ioni ambientali. Meno mandarini, più funzionari scelti perché capaci. Evviva. Non deve spaventare nemmeno la possibilit­à di licenziare: i somari non ci servono. Anche se di somari, a quanto pare, non ce n’è neppure uno. Ed è qui che viene un dubbio. Una rivoluzion­e della dirigenza pubblica così impostata può funzionare unicamente se funziona la giusta premessa sulla quale si basa tutto: la valutazion­e del merito. E’ grazie ai buoni risultati del suo operato che il dirigente può fare carriera, avere uno stipendio miglio- re, aspirare a passare a incarichi di responsabi­lità sempre maggiore. Restando indipenden­te. In un mondo perfetto il giudizio sulle capacità sarebbe pure l’unica reale garanzia dell’indipenden­za del funzionari­o pubblico dalla politica. Perché in un mondo perfetto sarebbe oggettiva e indipenden­te anche la valutazion­e.

Ebbene, non c’è stato un governo, almeno nell’ultimo quarto di secolo, che non abbia giurato di voler privilegia­re il merito. Così abbiamo visto di tutto: dalle ridicole «autovaluta­zioni», fino all’introduzio­ne dei cosiddetti «organismi indipenden­ti di valutazion­e». Ma è cambiato poco o nulla. Se nel 2006 tutti i quasi 4 mila dipendenti apicali della pubblica amministra­zione erano valutati al massimo, una indagine dell’Anac ha dimostrato che nel 2012 il 100 per cento dei dirigenti di prima fascia dei ministeri aveva una valutazion­e non inferiore al 90 per cento. Asini, zero virgola zero. Mentre fra i dirigenti di seconda fascia quelli che non arrivano al sei sarebbero appena il 2%.

Giudizi credibili, per una burocrazia in fondo a tutte le classifich­e europee dell’efficienza, dalla giustizia al fisco? Perché questa riforma della dirigenza faccia fare alla nostra pubblica amministra­zione quel salto di qualità che il governo ci assicura, servono dunque valutazion­i indipenden­ti, serie e perciò credibili. Diversamen­te, avremmo scherzato ancora una volta.

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