Ouagadougou, palazzo-icona di Gheddafi
Cinque anni fa era stato impressionante visitare gli stanzoni vuoti, gli spessi muri di cemento armato, la gigantesca libreria, sugli scaffali ancora migliaia di copie del «libro verde» di Muhammar Gheddafi tradotto in decine di lingue. La maggioranza erano dialetti africani. Ciò per il fatto che il raìs della Libia aveva voluto situare proprio nella sua roccaforte più importante il grande centro congressi di Ouagadougou che voleva essere appunto il luogo-ponte tra la sua Jamahiriya e l’Africa. Ouagadougou come la capitale del Burkina Faso, dove Gheddafi investì parecchio. A Tripoli gli edifici erano stati costruiti dall’italiana Impregilo dal 1992 al 1996. E nell’ottobre 2011 è stato tra i luoghi dei combattimenti più aspri tra le milizie della rivoluzione e le truppe ancora fedeli a
Gheddafi, prima che questi venisse linciato a un pugno di chilometri di distanza. Diversi palazzi erano stati incendiati, ma sono tutti ancora in piedi. Non a caso Isis un anno e mezzo fa lo ha trasformato nel suo centro amministrativo ribattezzandolo «Falluja», la città sunnita in Iraq. Nei suoi sotterranei si troverebbero i depositi di munizioni e cibo. I giardini sono ora infidi campi minati. I cecchini stanno sui tetti, dietro le colonne, nascosti nelle cantine. Ma per gli americani è stato facile bombardarlo. Attorno non vi sono civili, ma campi aperti.
Quello che prima era un punto di vantaggio per i cecchini di Isis, si è trasformato in un fattore di debolezza sotto i droni e le bombe intelligenti «made in Usa».