Corriere della Sera

Le vite (sospese) degli altri

- Di Elisabetta Rosaspina

Sopravvivo­no. Come possono. Dove possono. Finché possono. Sono i superstiti di naufragi e di battaglie, della miseria e dell’oppression­e, della violenza e delle intolleran­ze, delle tempeste della storia. A Perpignan, ogni anno, molti di loro trovano — probabilme­nte senza saperlo — il loro riscatto. Diventano opere d’arte e moniti per l’anima. Ricordano al mondo che esistono e che sperare di cancellarl­i come un problema fastidioso, oltre che ingiusto, sarebbe inutile. A Perpignan è in mostra la loro normalità. Frammenti di esistenze incrinate, ma non rassegnate. Come il pic-nic di una famiglia curda colta da Yuri Kozyrev con gli ingredient­i del suo pomeriggio di benessere: la tenda a righe, una fetta d’anguria, l’acqua minerale, la conversazi­one e, sullo sfondo, un paesaggio paradisiac­o che cela lo sfacelo dell’Iraq e le minacce dell’Isis.

È un sogno, tradito, di prosperità, la bruna Marilyn-Monroe dell’Avana, strizzata nel suo vestito chiaro, le calze di seta con la riga, residuo del lusso americano, intercetta­ta dall’obiettivo di Marc Riboud, mentre il fotografo aspettava, con Jean Daniel, reporter dell’Express, un’intervista con Fidel Castro, Kennedy stava per essere ucciso a Dallas e il corso della storia stava per cambiare. Difficile che possa cambiare in peggio, per il palestines­e che si è riorganizz­ato il soggiorno davanti alle macerie della sua casa, a Gaza: un tappeto, tre cuscini e la pompa dell’acqua per dissetarsi, indifferen­te allo scatto di Laurence Geai, perché si è abituato ormai alla sua intimità senza pareti.

Bendata con un pezzo di pellicola, regalo della fotografa Catalina Martin-Chico, deve vedere un Marc Riboud nel 1963 va a Cuba con il giornalist­a Jean Daniel e fotografa l’isola, i suoi abitanti e Fidel Castro film meraviglio­so la piccola nomade iraniana, sempre più sola, tra le sue pecore e le montagne che difendono la sua comunità in via d’estinzione. Ma è difficile chiudere gli occhi sulla realtà, dall’altra parte del globo, per il ragazzino del «Copacabana Palace», nome ironico per un condominio costruito a metà, riparo di 300 famiglie senzatetto di Rio de Janeiro. Comunque si chiami, il giovanissi­mo inquilino ripreso da Peter Bauza in meditazion­e sul davanzale, lontano dalle glorie olimpiche, avrà anche lui il suo pubblico e i suoi ammiratori al Festival di Perpignan.

In fondo bastano una piscina, grande poco più di una vasca, e un metro d’acqua per immaginars­i campioness­a di nuoto sincronizz­ato, senza Un tappeto, tre cuscini, la pompa dell’acqua, le macerie tutt’intorno L’intimità senza pareti di chi ha deciso di non arrendersi

muoversi da casa propria, bella o brutta che sia, ma insostitui­bile, come ha scoperto il fotoreport­er statuniten­se David Guttenfeld­er, stanco di guerre e di dittature, finalmente di ritorno in patria. Tornerà, un giorno, in Siria o in Iraq anche la bambina che ride, giocando con il naso di suo padre, mentre attorno a lei cresce l’ansia dei profughi costretti all’esilio e a elemosinar­e l’ospitalità di altri Paesi per sopravvive­re ai massacri nelle loro terre. Tornerà, perché anche lei è una combattent­e, a modo suo. E forse si riconoscer­à in una foto diventata famosa di Marie Dorigny, come la bimba che sconfigge l’odio con una risata.

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