Le vite (sospese) degli altri
Sopravvivono. Come possono. Dove possono. Finché possono. Sono i superstiti di naufragi e di battaglie, della miseria e dell’oppressione, della violenza e delle intolleranze, delle tempeste della storia. A Perpignan, ogni anno, molti di loro trovano — probabilmente senza saperlo — il loro riscatto. Diventano opere d’arte e moniti per l’anima. Ricordano al mondo che esistono e che sperare di cancellarli come un problema fastidioso, oltre che ingiusto, sarebbe inutile. A Perpignan è in mostra la loro normalità. Frammenti di esistenze incrinate, ma non rassegnate. Come il pic-nic di una famiglia curda colta da Yuri Kozyrev con gli ingredienti del suo pomeriggio di benessere: la tenda a righe, una fetta d’anguria, l’acqua minerale, la conversazione e, sullo sfondo, un paesaggio paradisiaco che cela lo sfacelo dell’Iraq e le minacce dell’Isis.
È un sogno, tradito, di prosperità, la bruna Marilyn-Monroe dell’Avana, strizzata nel suo vestito chiaro, le calze di seta con la riga, residuo del lusso americano, intercettata dall’obiettivo di Marc Riboud, mentre il fotografo aspettava, con Jean Daniel, reporter dell’Express, un’intervista con Fidel Castro, Kennedy stava per essere ucciso a Dallas e il corso della storia stava per cambiare. Difficile che possa cambiare in peggio, per il palestinese che si è riorganizzato il soggiorno davanti alle macerie della sua casa, a Gaza: un tappeto, tre cuscini e la pompa dell’acqua per dissetarsi, indifferente allo scatto di Laurence Geai, perché si è abituato ormai alla sua intimità senza pareti.
Bendata con un pezzo di pellicola, regalo della fotografa Catalina Martin-Chico, deve vedere un Marc Riboud nel 1963 va a Cuba con il giornalista Jean Daniel e fotografa l’isola, i suoi abitanti e Fidel Castro film meraviglioso la piccola nomade iraniana, sempre più sola, tra le sue pecore e le montagne che difendono la sua comunità in via d’estinzione. Ma è difficile chiudere gli occhi sulla realtà, dall’altra parte del globo, per il ragazzino del «Copacabana Palace», nome ironico per un condominio costruito a metà, riparo di 300 famiglie senzatetto di Rio de Janeiro. Comunque si chiami, il giovanissimo inquilino ripreso da Peter Bauza in meditazione sul davanzale, lontano dalle glorie olimpiche, avrà anche lui il suo pubblico e i suoi ammiratori al Festival di Perpignan.
In fondo bastano una piscina, grande poco più di una vasca, e un metro d’acqua per immaginarsi campionessa di nuoto sincronizzato, senza Un tappeto, tre cuscini, la pompa dell’acqua, le macerie tutt’intorno L’intimità senza pareti di chi ha deciso di non arrendersi
muoversi da casa propria, bella o brutta che sia, ma insostituibile, come ha scoperto il fotoreporter statunitense David Guttenfelder, stanco di guerre e di dittature, finalmente di ritorno in patria. Tornerà, un giorno, in Siria o in Iraq anche la bambina che ride, giocando con il naso di suo padre, mentre attorno a lei cresce l’ansia dei profughi costretti all’esilio e a elemosinare l’ospitalità di altri Paesi per sopravvivere ai massacri nelle loro terre. Tornerà, perché anche lei è una combattente, a modo suo. E forse si riconoscerà in una foto diventata famosa di Marie Dorigny, come la bimba che sconfigge l’odio con una risata.