UN NO CHE IMPLICA SOLTANTO UNA CRITICA DELLA RIFORMA
Caro direttore, sono uno dei dieci parlamentari Pd che hanno firmato un documento (vedi change.org) nel quale si motiva un no sereno e convinto al referendum costituzionale. Un no di merito alla riforma, sul quale non posso tornare qui. Abbiamo scritto, riscritto e ribadito che il nostro non è un no al governo, che lealmente sosteniamo; che — lo sappiamo — la nostra è opinione in dissenso dalla posizione ufficiale del Pd; che essa impegna solo le nostre persone, la nostra responsabilità di cittadini e di parlamentari; che nulla c’entra con le dispute tra le correnti del Pd. Non a caso il nostro pronunciamento ha anticipato quello degli esponenti più rappresentativi della minoranza Pd che hanno annunciato di condizionare il proprio sì a un cambiamento dell’Italicum da mettere in cantiere già prima del referendum. Posizione diversa la nostra: se si vuole, più netta ma anche più concentrata nel giudizio sulla riforma. Noi, che pure riconosciamo un nesso con la legge elettorale, non leghiamo ad essa il nostro no, amiamo distinguere. Cambiare l’Italicum, per noi, non riscatterebbe la riforma.
Ciononostante, non c’è verso di non essere associati ai nemici di Renzi e del governo da politici e opinionisti. C’è qualcosa che non torna. Evidentemente il confronto è viziato e carico valenze improprie. Merita fermarsi un attimo a ragionare.
Primo: se si fa un referendum, si suppone che siano leciti sia il sì che il no e che non sia un «giudizio di dio». Secondo: il Pd è per il sì, ma il suo statuto e i suoi vertici — va riconosciuto a loro merito — non avanzano la pretesa di un vincolo disciplinare. Terzo: un po’ tutti, a cominciare da Renzi e Boschi, chiedono a gran voce che il confronto si concentri sul merito, non su premier e governo. Eppure noi siamo costretti a precisare ogni minuto che il nostro no
non sottintende altro che un giudizio critico sul complesso della riforma. Curioso: siamo semmai noi che, distinguendo i piani, non esponiamo il governo. Non è palesemente contraddittorio? Non mi sfuggono le ragioni. Almeno quattro, a mio avviso.
La prima è l’errore, ora corretto dal premier, di personalizzare e politicizzare a dismisura la contesa. E, prima ancora, l’improprio protagonismo del governo lungo tutto l’iter della legge, su materia eminentemente parlamentare quale quella costituzionale. Sino a farsi promotrici, maggioranza e governo, del referendum, un istituto che i costituenti avevano pensato azionabile da parte delle minoranze sconfitte in parlamento. Forse siamo ancora in tempo per scongiurare la confusione e il trauma di un tale improvvido approccio. La seconda va invece imputata alle minoranze Pd: mi pare francamente debole, come ha notato Alessandro Pace, la tesi di chi sostiene che, correggendo l’Italicum, una cattiva riforma costituzionale si farebbe buona. In terzo luogo, una certa pigrizia intellettuale dei commentatori. Già il referendum, di natura sua, costringe entro una logica binaria, se poi anche gli opinionisti ci mettono del loro nel non distinguere le ragioni degli uni e degli altri ....
Infine, tutto il confronto è avvelenato e «militarizzato» dalla circostanza di una grande riforma varata da una piccola maggioranza. Esattamente ciò che ci eravamo solennemente impegnati a non fare più. Perché la Costituzione è la legge fondamentale che tiene insieme una comunità. Riscrivere 47 articoli nel segno di una divisione lacerante è un prezzo troppo alto.