Corriere della Sera

UN NO CHE IMPLICA SOLTANTO UNA CRITICA DELLA RIFORMA

- Di Franco Monaco

Caro direttore, sono uno dei dieci parlamenta­ri Pd che hanno firmato un documento (vedi change.org) nel quale si motiva un no sereno e convinto al referendum costituzio­nale. Un no di merito alla riforma, sul quale non posso tornare qui. Abbiamo scritto, riscritto e ribadito che il nostro non è un no al governo, che lealmente sosteniamo; che — lo sappiamo — la nostra è opinione in dissenso dalla posizione ufficiale del Pd; che essa impegna solo le nostre persone, la nostra responsabi­lità di cittadini e di parlamenta­ri; che nulla c’entra con le dispute tra le correnti del Pd. Non a caso il nostro pronunciam­ento ha anticipato quello degli esponenti più rappresent­ativi della minoranza Pd che hanno annunciato di condiziona­re il proprio sì a un cambiament­o dell’Italicum da mettere in cantiere già prima del referendum. Posizione diversa la nostra: se si vuole, più netta ma anche più concentrat­a nel giudizio sulla riforma. Noi, che pure riconoscia­mo un nesso con la legge elettorale, non leghiamo ad essa il nostro no, amiamo distinguer­e. Cambiare l’Italicum, per noi, non riscattere­bbe la riforma.

Ciononosta­nte, non c’è verso di non essere associati ai nemici di Renzi e del governo da politici e opinionist­i. C’è qualcosa che non torna. Evidenteme­nte il confronto è viziato e carico valenze improprie. Merita fermarsi un attimo a ragionare.

Primo: se si fa un referendum, si suppone che siano leciti sia il sì che il no e che non sia un «giudizio di dio». Secondo: il Pd è per il sì, ma il suo statuto e i suoi vertici — va riconosciu­to a loro merito — non avanzano la pretesa di un vincolo disciplina­re. Terzo: un po’ tutti, a cominciare da Renzi e Boschi, chiedono a gran voce che il confronto si concentri sul merito, non su premier e governo. Eppure noi siamo costretti a precisare ogni minuto che il nostro no

non sottintend­e altro che un giudizio critico sul complesso della riforma. Curioso: siamo semmai noi che, distinguen­do i piani, non esponiamo il governo. Non è palesement­e contraddit­torio? Non mi sfuggono le ragioni. Almeno quattro, a mio avviso.

La prima è l’errore, ora corretto dal premier, di personaliz­zare e politicizz­are a dismisura la contesa. E, prima ancora, l’improprio protagonis­mo del governo lungo tutto l’iter della legge, su materia eminenteme­nte parlamenta­re quale quella costituzio­nale. Sino a farsi promotrici, maggioranz­a e governo, del referendum, un istituto che i costituent­i avevano pensato azionabile da parte delle minoranze sconfitte in parlamento. Forse siamo ancora in tempo per scongiurar­e la confusione e il trauma di un tale improvvido approccio. La seconda va invece imputata alle minoranze Pd: mi pare francament­e debole, come ha notato Alessandro Pace, la tesi di chi sostiene che, correggend­o l’Italicum, una cattiva riforma costituzio­nale si farebbe buona. In terzo luogo, una certa pigrizia intellettu­ale dei commentato­ri. Già il referendum, di natura sua, costringe entro una logica binaria, se poi anche gli opinionist­i ci mettono del loro nel non distinguer­e le ragioni degli uni e degli altri ....

Infine, tutto il confronto è avvelenato e «militarizz­ato» dalla circostanz­a di una grande riforma varata da una piccola maggioranz­a. Esattament­e ciò che ci eravamo solennemen­te impegnati a non fare più. Perché la Costituzio­ne è la legge fondamenta­le che tiene insieme una comunità. Riscrivere 47 articoli nel segno di una divisione lacerante è un prezzo troppo alto.

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