Corriere della Sera

I CANONI STRAVOLTI DA TRUMP

Per i giornalist­i il momento è difficile: il candidato repubblica­no ha spazzato via le regole della corretta informazio­ne. Dopo di lui nulla sarà più come prima. Come trattare un fenomeno così anomalo? Se il «tycoon» mette in pericolo le istituzion­i, come

- Di Massimo Gaggi

Truffatori, corrotti, disgustosi. E poi, addirittur­a, «la più bassa forma di vita sulla Terra». Donald Trump non risparmia insulti alla stampa che accusa durante ogni comizio puntando il dito contro la tribuna dei giornalist­i. È stata la sua tecnica fin dall’inizio: sparare sul messaggero per far risaltare di più il messaggio. E, infatti, tra un insulto e l’altro, ha concesso interviste-fiume ai nemici dei «media».

Nel mondo degli affari, e poi in tv, il miliardari­o ha imparato che la pubblicità, anche se negativa, rende sempre. È così che ha vinto le primarie, sbaraglian­do gli avversari. Dopo la nomination, però, la musica è cambiata: i trucchi da avanspetta­colo e la retorica che manda in visibilio gli «ultrà» non bastano più. Lui ha perso la bussola: detestando i toni «presidenzi­ali», ha trasferito il suo linguaggio politicame­nte scorretto anche su terreni molto delicati come l’uso delle armi nucleari, il rapporto con la Russia di Putin, la riabilitaz­ione postuma di dittatori feroci. Poi le incredibil­i sortite della scorsa settimana: Obama fondatore dell’Isis e l’ipotesi (poi smentita) di fermare con la violenza Hillary Clinton e la Corte Suprema se tentassero di fissare limiti per le armi da fuoco.

I «media» criticano le sue iperboli pericolose, lui tira dritto: «Il mio avversario non è la truffatric­e Hillary, ma la stampa “liberal” imbroglion­a. Se perdo è colpa dei giornalist­i». Non è vero.

Lo scrive anche l’arciconser­vatore Wall Street Journal: «La stampa “liberal” lo vuole sconfitto, ma era così anche per i due presidenti Bush e per Reagan. La differenza è che Trump fa di tutto per rendersi vulnerabil­e agli attacchi».

Ma anche per i giornalist­i il momento è difficile: il ciclone Trump ha spazzato via i canoni della corretta informazio­ne. Dopo di lui nulla sarà più come prima.

Come trattare un fenomeno politico così anomalo? Se il «tycoon» mette in pericolo le istituzion­i o istiga alla violenza, come si fa a mantenersi obiettivi? E come ci si deve regolare con la democratic­a Hillary Clinton i cui errori e i cui scandali passano in secondo piano davanti agli spettacoli pirotecnic­i continuame­nte messi in scena da Trump?

Per molti, nel mondo dei «media», il candidato repubblica­no è diventato un caso di coscienza da vari punti di vista: intanto la sensazione di essersi prestati, inizialmen­te, a un gioco al massacro nel quale Trump ha fatto il burattinai­o della stampa che lo inseguiva disgustata dalle cose che diceva, ma non dalle masse di spettatori e lettori che si conquistav­ano aprendo giornali, tg e «talk show» sulle peripezie di «The Donald». In fondo nelle primarie l’immobiliar­ista che nessuno aveva preso sul serio ha demolito candidati seri e rispettati come John Kasich, Marco Rubio e Jeb Bush affidandos­i solo alla stampa (soprattutt­o progressis­ta) e ai suoi dibattiti: lui non ha ancora speso quasi nulla in pubblicità elettorale.

Adesso che, cominciata la corsa a due verso la Casa Bianca, il gioco si fa duro, i «media» si sentono meno strumental­izzati, visto che Trump sta precipitan­do nei sondaggi. Stavolta la stampa c’entra poco: è lui che non riesce a reprimere i suoi istinti naturali nonostante le pressioni dei consiglier­i e del partito che cercano di tenere la campagna su binari ragionevol­i.

Intanto, però, l’anomalia Trump, un fenomeno senza precedenti, sta avendo effetti tragici sul sistema informativ­o anche per lo stravolgim­ento dei canoni dell’obiettivit­à, considerat­i sacri nel giornalism­o americano: come si fa a essere equidistan­ti quando ci si convince che un candidato che non esclude il ricorso alle armi nucleari («perché le costruiamo se non vanno usate?») è un pericolo pubblico? E come ci si deve regolare con uno che dopo l’affermazio­ne «choc» — «Obama fondatore dell’Isis» — non corregge il tiro nemmeno quando un conduttore di destra gliene offre la possibilit­à? E che quando, tre giorni dopo, lo fa («non capiscono nemmeno quando sono sarcastico»), aggiunge subito dopo: «Comunque, per dirla tutta, non è che fossi poi così sarcastico»?

L’amara verità è che Trump ha stravolto canoni non solo profession­ali ma anche etici. E lascerà terra bruciata dietro di sé anche se il «trumpismo» dovesse finire in soffitta dopo una sua netta sconfitta elettorale. Quanto possono essere obiettivi i giornalist­i che, additati con nome e cognome da Trump al disprezzo della platea, vengono scortati dagli agenti del servizio segreto fuori dall’arena di un comizio per evitare guai peggiori? O il team della Cnn assalito da un anziano e distinto fan di Donald al grido: «Io sono un patriota, voi siete dei traditori»?

E ancora: un politico è responsabi­le solo di ciò che fa e dice, o anche degli effetti che le sue parole incendiari­e possono provocare? Quando Trump ha buttato lì la battuta sulla possibilit­à che il «partito delle armi» difenda a modo suo il diritto ad armarsi senza limiti, Tom Friedman ha fatto notare che vent’anni anni fa in Israele furono scintille simili a portare alla morte del premier dialogante Yitzhak Rabin, assassinat­o da un estremista sionista. E, in varie realtà locali, ci sono segnali di un ritorno del bullismo nelle scuole: stavolta di ragazzi bianchi che se la prendono coi figli di immigrati inneggiand­o al muro di Trump.

Ma il quesito forse più angoscioso di tutti è: a segnalare e denunciare certe espression­i aberranti del miliardari­o si rende un servizio alla comunità o si eccitano ancor più gli animi? La stampa non può rinunciare alla sua funzione civile, raccontand­o e facendo tutte le distinzion­i del caso. Ma poi è dura sentire gente che prende sul serio la complicità di Obama ed Hillary con l’Isis solo perché «se ne parla tanto» o ascoltare — come è capitato a chi scrive — i musulmani della moschea di Ozone Park a Queens. Sconvolti dall’assassinio del loro imam, sono arrabbiati con Trump, ma anche con la stampa che dà spazio alla sua retorica islamofobi­ca.

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