Corvo Bianco e il golpe fallito
All’alba del 19 agosto 1991, il telefono squillò a lungo nell’appartamento sul Kutuzovski Prospekt a Mosca. Ero andato a dormire alcune ore prima, dopo aver festeggiato il mio trentacinquesimo compleanno insieme a pochi colleghi italiani, francesi e americani, rimasti ad assicurare la copertura in quella torrida e strana estate moscovita.
A parte goderci il caldo, sempre benvenuto sulla Moscova, nelle settimane precedenti ci eravamo occupati soprattutto di voci, sussurri, scenari in cui nessuno credeva. All’inizio del mese, Alexander Jakovlev, uno degli architetti della Perestrojka ora un po’ ai margini, ci aveva concesso un’intervista di fuoco: «Gli uomini con le stellette gli coprono la visuale — aveva detto parlando di Gorbaciov —, sento odore di golpe». Ma Jakovlev aveva il dente avvelenato e poi era sempre incline alle esagerazioni. L’unico appuntamento al quale tutti guardavamo era l’imminente ritorno di Gorbaciov dalla dacia di Foros, in Crimea, per la firma del nuovo Trattato dell’Unione, prevista il 20 agosto.
Alzai la cornetta. Le 7 e 30, le 5 e 30 in Italia. All’altro capo del filo Livio Caputo, il caporedattore agli Esteri del Corriere, urlava quasi: «Ci sono voci di un colpo di Stato. Vai a vedere cosa sta succedendo».
In pochi minuti mi ritrovai nel cortile. I corrispondenti e i diplomatici occidentali che vivevano in quel ghetto di lusso dell’Updk, l’occhiuto dipartimento del ministero degli Esteri che si occupava della nostra logistica, erano in strada o correvano alle auto. «Hanno arrestato Gorbaciov», era la voce che si rincorreva. Mi misi alla guida e uscii sul vialone. Ci volle qualche chilometro prima di vedere i carri armati della divisione Tamanskaja: si muovevano a singhiozzo, in fila indiana, mescolandosi al traffico già impazzito. Tornai verso il centro, ancora tranquillo: il Novoj Arbat, il Maneggio, la Lubianka con l’enorme statua di Felix Dzerzhinskij dov’era la sede del Kgb. Le Volga nere dei funzionari entravano senza fretta nell’edificio del Comitato Centrale sulla Piazza Vecchia. Puntai verso il Palazzo bianco sul lungofiume dove aveva sede il Soviet Supremo della Russia, la Casa Bianca di Boris Eltsin.
Si erano fatte le nove. Al cancello i deputati arrivavano alla spicciolata. Ecco Kozyrev, da poco ministro degli Esteri. «Dov’è Boris Nikolaevich?», chiesi ad Arkady Murashov, giovane deputato democratico che di lì a poco sarebbe diventato capo della polizia di Mosca. «Al sicuro per fortuna, arriverà qui fra poco», fu la sua risposta prima di infilarsi alla riunione del presidium. Avremmo saputo dopo che Eltsin non era stato arrestato, che il gruppo Alfa del maggiore Karpoukhin si era rifiutato di eseguire l’ordine.
Feci un salto in ufficio, dall’altra parte della strada. Natasha, la nostra interprete, disse che la radio già dalle 5 diffondeva i comunicati del Comitato Statale per lo Stato di Emergenza. Dicevano che Gorbaciov «non può svolgere le sue funzioni per motivi di salute» e che il suo vice, Gennady Janaev, aveva assunto temporaneamente i poteri di presidente dell’Urss. Introducevano lo stato d’assedio, sospendevano giornali e partiti, ristabilivano «la legge e la Costituzione sovietica su tutto il territorio». La fine del sogno gorbacioviano di una riforma graduale del sistema.
Quando tornai davanti alla Casa Bianca, c’era una grande folla, centinaia di persone che inneggiavano a Eltsin. I carri armati in fila, pronti a schierarsi intorno al palazzo. Ma la gente parlava con i soldati, che apparivano sorpresi, imbambolati. Non dimenticherò mai quella babushka in ginocchio davanti al primo blindato, che continuava a farsi il segno della croce e ripeteva senza sosta: «Mi verim Eltsinu», noi crediamo in Eltsin.
A mezzogiorno, Eltsin apparve davanti al palazzo. Voleva leggere un appello ai cittadini di Mosca. Il capo della sua sicurezza, Alexandr Korzhakov, saltò su un carro armato e gli tese la mano per aiutarlo a salire. Lo lesse in piedi sul blindato, agitando la celebre chioma che gli era valso l’appellativo di Corvo Bianco. L’immagine che lo consegnò alla Storia. La città era ormai paralizzata. I carri erano dappertutto, ma si muovevano decine di cortei spontanei. Migliaia di persone intorno ai soldati: «Non sparerete mica sul popolo?». E quelli sempre meno convinti a ripetere: «Eseguiamo gli ordini». In qualche incrocio apparivano delle barricate. Per Demetrio Volcic, il nostro decano, era come un flash back: «Mi ricorda Praga nel ‘68».
I golpisti avevano convocato una conferenza stampa alle 17. I loro nomi erano sulla bocca di tutti: gli uomini forti erano Kriuchkov, il capo del Kgb; Pugo, il ministro degli Interni, l’unico che sarebbe finito suicida sparandosi alla maniera dei generali nazisti; Jazov, alla Difesa; Pavlov, il premier; Baklanov, l’uomo del complesso militar-industriale. Boldin, capo dello staff di Gorbaciov, la talpa interna.
Janaev era solo un uomo di facciata. Fu lui a gestire con imbarazzo l’incontro con i media internazionali. Arrivammo al centro stampa del Mid, il ministero degli Esteri. Con Giulietto Chiesa, il corrispondente de l’Unità, avevamo fatto lo slalom con l’auto sui marciapiedi per evitare folla e carri armati. Si presentarono solo in cinque: oltre a Janaev, c’erano Jazov, Baklanov, Pugo e altri due meno conosciuti. Kriuchkov, il puparo, era assente.
Eravamo furenti, gli occidentali e i colleghi russi. Forse poco professionali. Le domande tradivano sdegno: «Dov’è Michail Sergeevich?», chiese seria Carroll Bogert di Newsweek. «E lei come sta in salute?», lanciò Giulietto. Janaev non colse l’ironia e rispose volgare: «Mia moglie dice che sto benissimo». Era il mio turno. Mi venne così, spontanea: «Visto che ha chiuso giornali e partiti, ha chiesto consigli al generale Pinochet?». Ci fu un ohhhh stupito e un accenno subito smorzato di applauso dei colleghi russi. Il portavoce disse che non si accettavano provocazioni e passò alla domanda successiva.
Uscimmo con un’impressione precisa: non controllano la situazione. Avevano detto che il Soviet Supremo sarebbe stato convocato solo la prossima settimana. Era chiaro che prendevano tempo.
La conferenza stampa era stata trasmessa in diretta, l’avevano vista tutti. Fuori impazzava un acquazzone estivo come soltanto a Mosca. Rientrai in ufficio, avevo almeno tre pezzi da scrivere. Era già piena notte quando tornai alla Casa Bianca. Fuori, migliaia di persone presidiavano ogni strada. I carri erano ancora lì, ma non era più chiaro se stessero assediando o difendendo. Un ragazzo teneva un grande cartello: «Gennady, hai chiesto consiglio a Pinochet?». Per fortuna non era così. Anche se, prima di concludersi nell’ignominia, quel golpe lungo un giorno avrebbe lasciato una piccola scia di sangue. Quel che non potevamo mai immaginare, in quella giornata d’agosto, è che stessimo vivendo il prologo del Grande Cataclisma, il crollo dell’Unione Sovietica e la fine del secolo breve.
Una babushka in ginocchio davanti al primo blindato si faceva il segno della croce e ripeteva senza sosta: «Mi verim Eltsinu», crediamo in Eltsin