Corriere della Sera

Donne coperte, dignità lesa

Una comunità dove manca lo sguardo femminile, dove il volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione dallo spazio pubblico

- Di Donatella Di Cesare

Il burkini è la versione meno castigata del burka per le donne musulmane in spiaggia. Chi lo approva difende il diritto delle donne o non, piuttosto, il dovere che è loro imposto dagli uomini? Coprire una donna significa calpestare la dignità di tutte.

Si chiama burkini la versione meno castigata del burka, concepita per le donne musulmane che vanno in spiaggia. Si vede qualcosa in più: i piedi, le mani, parte del volto. Sarebbe troppo definirlo un costume da bagno. Il nome fa pensare ovviamente al bikini. E forse non è azzardato vedere nel burkini una risposta identitari­a ai due pezzi conquistat­o a fatica dalle donne occidental­i: voi vi scoprite — noi ci lasciamo coprire.

Può darsi che un burkini sia anche bello. Alcuni sono perfino colorati. E c’è chi non ha mancato di ironizzare sulla forte carica erotica di quei drappeggi che, una volta nell’acqua, fanno trapelare le forme del corpo. Viene in mente l’immagine di Ursula Andress quando, nel film 007 Licenza di uccidere, esce dal mare con la muta da sub. Non è un classico dei fantasmi maschili? Come la t-shirt bagnata. Perché questa ipocrisia?

Certo è, però, che l’immagine di una donna in burkini sulla spiaggia può inquietare e irritare per numerosi motivi. Non stupiscono, dunque, le ordinanze emesse dai sindaci che lo hanno vietato, prima a Cannes, poi a Villeneuve-Loubet, sulla Costa Azzurra. Vietare, si sa, è sempre un gesto odioso. Ma a poco più di un mese dalla strage di Nizza il burkini viene percepito da molti francesi come una provocazio­ne inopportun­a che potrebbe contribuir­e a esasperare gli animi. Da un canto la nudità disarmata dei bagnanti, che nonostante tutto vanno in spiaggia, dall’altro quel costume-armatura che copre, fin quasi a nascondere, la donna che lo indossa. Alla provocazio­ne si aggiunge inoltre il segno di un’appartenen­za ostentata in un modo che, nella Francia repubblica­na, non può non apparire indisponen­te (ma lo sarebbe anche da noi). Un costume integrale che richiama immediatam­ente l’integralis­mo. Questa è la differenza rispetto ad altri simboli religiosi, dalla kippàh alla croce, che vengono invece consentiti. Si intuiscono, poi, i motivi di sicurezza, sia perché non sarebbe difficile nascondere armi, sia perché basterebbe un paio di occhiali da sole per rendere completame­nte irriconosc­ibile l’identità.

È allora difficile comprender­e le proteste sollevate da quelle organizzaz­ioni, a cominciare dalla Ligue des Droits de l’Homme e dal Collectif contre l’islamophob­ie en France, che vorrebbero leggere nel divieto del burkini un caso di razzismo islamofobo. Stanno difendendo il diritto delle donne o non, piuttosto, il dovere che è loro imposto dagli uomini? La risposta viene dalle immagini di Manbij, la città siriana appena liberata, dove le donne si strappano gioiosamen­te il velo del burka, lo calpestano o lo danno addirittur­a alle fiamme. In questo periodo, inquietant­e e drammatico, in cui da uno sfondo di violenza, a stento immaginabi­le, riemergono le ragazze rapite da Boko Haram, l’abbraccio tra una donna velata e una soldatessa curda è, in tutto il suo contrasto paradigmat­ico, il sigillo di una speranza a cui non vogliamo rinunciare.

Resta la questione del burka, che la Francia ha vietato nel 2010 e su cui, invece, la Germania si mostra titubante rinviando per ora ogni decisione. Non si tratta solo di sicurezza. Né di diversi stili di vita.

Piuttosto è il corpo della donna che, secondo l’ottica integralis­ta, non deve comparire pubblicame­nte, perché è «carne scoperta», esposta, e potrebbe provocare, fuorviare gli uomini. Tanto più insopporta­bile è il velo che abolisce il volto della donna. Una donna coperta dal burka è protetta, difesa, venerata? O non è forse mortificat­a? Esclusa soprattutt­o dalla reciprocit­à del «faccia a faccia»? A essere danneggiat­a non è solo la donna, la cui dignità viene calpestata, ma tutta la comunità che sul «faccia a faccia» reciproco si fonda. Una comunità dove manca lo sguardo delle donne, dove il loro volto è consegnato alla irrealtà, non può non essere sminuita e lesa. Proprio questo non si può accettare: l’esclusione delle donne dallo spazio pubblico.

È difficile comprender­e le proteste sollevate da quelle organizzaz­ioni che vorrebbero leggere nei divieti un caso di razzismo islamofobo

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