Corriere della Sera

Il colore della fierezza nell’estate tra i vigneti

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Uella piccola e svelta automobile eravamo in tre, oltre al meccanico: Nella, Giuliana ed io. Macchina scoperta, per veder meglio. Non una mèta fissa: si voleva sempliceme­nte vagabondar­e un poco, in quel sereno pomeriggio domenicale d’ultima estate. Fra campi e praterie l’antica strada Romea (nel dialetto Rómera) si snodava in morbide svolte, salendo verso le colline vitifere che formano i contraffor­ti dell’Appennino ligure. Villaggi e borgate apparivano sparivano, in rapida visione di case a terrazze fiorite, corti cinte di fienili e pullulanti di bambini; e dappertutt­o un senso frugale di giocondità. Dalle falde alle cime, i dorsi delle colline eran coltivati interament­e a vigneto. L’ordine dei filari bene allineati, il verde quasi azzurrino dei pampini, il turgore dei grappoli quasi giunti a maturazion­e che si potevano, nelle zone più vicine, scorgere al riparo dei tralci, e la quiete solare dell’aria che già odorava d’autunno, ci rendevano felici come solo si può esserlo quando si pensa a una prossima vendemmia.

Giuliana, che non può starsene un quarto d’ora senza cantare, accennò a mezza voce una canzone di acini neri, di tini e di mosto. Negli intervalli tra una strofetta e l’altra ci mettemmo a discorrere di passate ricche vendemmie, come vecchi vignaioli; e la vita ci pareva assai gustosa giunte poi a un paese che ci piacque per un castello che lo dominava con la sua mole quadrata, scendemmo dall’automobile per sgranchirc­i, bere un sorso di vin bianco all’osteria e passeggiar­e un poco coi nostri piedi. Leggero il vino, e dissetante, ma di quello che nel corpo si trasforma subito in calore. Largo lo spiazzo dinanzi all’osteria: gruppi di villici — pezzi d’uomini tarchiati con facce cotte dal sole — godevano in pace l’ora festiva. Vedevamo donne e fanciulle dirigersi alla spicciolat­a, con secchi di rame e d’alluminio, ad un viottolo in discesa: andavano (così ci venne detto) ad attingere acqua alla sola fonte del borgo: poiché, se in quei paesi il vino e i liquori a base di vino abbondano, ciò che scarseggia per l’appunto è l’acqua. Passo passo prendemmo per un terrapieno erboso, lino ad un poggio non molto lontaallor­a,

di ADA NEGRI

nell’atto del riposo, ci colpì l’esilità delle sue gambe: specie della sinistra, secca come un sarmento. Il più vicino dei compagnoni (...), ci disse, franco: — Lui non può camminare che con le stampelle, o così. Con le stampelle non gli piace. Per questo si gioca alle corse dei cavalli. È contento, sa, lui: perché è il più bravo di tutti. Il capitano confermò in silenzio quelle parole, sorridendo con uno strano sorriso che voleva essere, e non era, indifferen­te.

Ebbi la sensazione che, in luogo di soffrirne, tenesse al suo male, a quella specie di mostruosit­à che lo rendeva diverso dagli altri, e quindi più degno d’interesse. Indossava una maglietta logora, a righe bianche e blu, e un paio di calzoncini corti. Le due misere gambe sporche di terriccio si mostravano senza vergogna nella loro magrezza orrenda: la sinistra più scarna e consunta della destra, col ginocchio deforme, lo stinco e la caviglia scheletric­i. Visibilmen­te non lo poteva sostenere nel moto naturale del passo: zoppicando egli riusciva (ci si provò, dinanzi a noi) a farne qualcuno; ma gli veniva subito a mancare la resistenza.

Deambulare e correre a quattro gambe come le fiere, in parità coi compagni, gli dava certo una gioia perversa, con l’illusione di possedere su loro, sanissimi, un privilegio: triste: comunque, un privilegio. (...) Figlio di povera gente: aveva finito la terza elementare: da piccolo era stato messo in un ospedale «per le ossa»; ma poi lo avevan tolto di là, né più ve lo avevano ricondotto. Guarigione impossibil­e: nulla da fare. «Ghe gnent da fàa» (...). La voluta impassibil­ità del ragazzo,il dominio sopra se stesso, lo sguardo d’acciaio, la bocca amara mi confessava­no che fra lui e il suo male s’era andata stringendo una tacita alleanza contro tutti e tutto. A qual punto ne fosse guasto il cuore, non arrivavo a comprender­e. Ciò di cui non potevo dubitare era ch’egli fosse convinto d’essere una unità, a differenza degli altri, dei sani, i quali costituiva­no la massa comune. Bisognava cercar di salvarlo. (...)

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