Vendiamo cultura, non abiti (ma non sappiamo raccontarlo)
Abbiamo un legame emozionale con gli oggetti che realizziamo, dettato dalle nostre radici. E una filiera di imprese e laboratori ai vertici della qualità. Ora il Made in Italy deve imparare a dar valore all’esperienza. Per esempio aprendo al pubblico le s
il 1987 quando Domenico Dolce e Stefano Gabbana — a due anni dalla prima sfilata, quindi ancora giovanissimi — affidano la loro prima campagna che conta ad un fotografo siciliano, Ferdinando Scianna. Le immagini in bianco e nero di Marpessa a Palermo, per le strade di Caltagirone o Ragusa, confusa fra le siciliane con il foulard in testa e il grembiule, mostrano abiti dalle linee sensuali e ardite che recuperano lavorazioni artigianali come il tombolo e il pizzo chiacchierino, la cui forza emozionale e comunicativa viene centuplicata dal paesaggio urbano in cui sono fotografati, una Sicilia assolata ed enigmatica che dà ai vestiti credibilità, ancorandoli in modo viscerale alla cultura di cui sono espressione.
È questa visceralità — verrebbe da scrivere carnalità — del legame fra oggetto e cultura la base e il senso del Made in Italy. Poi c’è la filiera, ci sono i distretti artigianali e industriali, c’è la ricerca e la capacità di innovazione, tutti elementi grazie ai quali il «fatto in Italia» assume valore e concretezza. Esiste. Ma senza quel primo passaggio, la «bolla» del Made in Italy si sarebbe già sgonfiata. «Produciamo cultura ed è questo che rende straordinari prodotti altrimenti ordinari», dice Marco Bettiol, ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese all’Università di Padova, docente di Internet Marketing e autore di «Raccontare il Made in Italy» (Marsilio). La moda italiana vende cultura, prima che pezzi di stoffa o di cuoio.
Palcoscenici inimitabili
Così Fendi sceglie di far sfilare le sue collezioni lungo una passerella trasparente allestita dentro la Fontana di Trevi (di cui ha finanziato il restauro), Bulgari investe sulla Scalinata di Trinità dei Monti — che il prossimo 21 settembre verrà riconsegnata, rimessa a nuovo, alla città —, Tod’s sul Colosseo, mentre Dolce e Gabbana, ancora loro, sfilano per i vicoli di Napoli dopo aver scelto Taormina, Venezia, Capri e Portofino per presentare l’Alta Moda. La grandezza di Parigi e la sua forza di traino non si discutono. Così come quella di Milano, cuore economico e creativo della moda italiana. Eppure la scelta, avventurosa e lungimirante, di legare i marchi a luoghi che sono al centro della storia e dell’immaginario — vere icone dell’italianità — diventa strada meno solitaria.
Per essere raccontato, il Made in Italy ha bisogno però di altro. La genialità degli stilisti che hanno saputo imporre un gusto e uno stile è solo una fetta della torta, la più sovraesposta. C’è una ricchezza di saperi e di competenze — senza le quali la stagione del pret-à-porter non sarebbe fiorita — ancora lontana dai riflettori. Eppure: non sono questi gli anni dello storytelling? Del «marketing delle esperienze», per riprendere un’espressione degli economisti americani Pine e Gilmore, secondo i quali «la differenza di prezzo è giustificata dalla qualità dell’esperienza che vive il consumatore»?
«Ci sono casi interessantissimi di marchi, che hanno sempre lavorato a monte, con grandissima qualità, e che ora hanno un rapporto diretto con il cliente finale. La generazione dei Millennials è attenta alla tracciabilità della filiera, saper raccontare il proprio lavoro diventa un vantaggio competitivo», dice Erica Corbellini, direttrice del Master Mafed in Bocconi (Fashion, Experience & Design Management) e autrice con Stefania Saviolo di «La scommessa del Made in Italy» (Etas). Thomas Mason del gruppo Albini, Vitale Barberis Canonico, Reda, Montero, Lozza ne sono un esempio eccellente.
J. Crew è un marchio americano di abbigliamento (veste anche Michelle Obama): su Youtube si trovano molti filmati — J. Crew goes to Italy — realizzati per mostrare l’eccellenza delle aziende italiane con cui collabora. È un’operazione di marketing intelligente, e a costi ridotti. Nel video si vedono le fabbriche e i laboratori, gli artigiani al lavoro, la costruzione di un tessuto e insieme si vede il paesaggio italiano, il team di J. Crew al ristorante mentre mangia una fiorentina o in strada, fra palazzi d’epoca, mentre gusta un gelato. C’è il lavoro e c’è la vita, puro Italian style. Peccato che a venderlo, pro domo sua, sia un marchio americano.
Il lusso sta cambiando, messo alle strette dalle richieste di maggiore trasparenza a partire proprio dalle materie prime e dalle lavorazioni. «Questo dà a chi produce tessuti molte più possibilità di emergere rispetto al passato», dice Ercole Botto Paola, ceo del lanificio Reda, nel Biellese, e presidente di Milano Unica, il salone italiano del tessile. «Fare uscire dalla nebbia» le storie e il modo di produrre degli imprenditori del Made in Italy è il primo obiettivo del suo mandato. «Se prendiamo un filo e lo diamo a quattro imprenditori italiani ne faranno quattro tessuti diversi; se lo diamo a quattro tedeschi, ne faranno quattro tessuti uguali. Dobbiamo fare emergere questa ricchezza e questa diversità. Se noi siamo ancora qui e i francesi, gli inglesi, i turchi non ci sono più, una ragione c’è. Oggi vendi l’azienda, non solo il prodotto, chi compra acquista tutto il pacchetto. Se ci coordiniamo di più, accendendo una luce sul nostro lavoro, avremo ritorni importanti».
Accendere la luce sul lavoro. «C’è tanta attenzione al ricambio generazionale degli stilisti — riprende Corbellini — ma loro sono apolidi. Il problema è il presidio della filiera, il modello di business, la capacità di fornire servizi in modo diverso da quanto fatto finora. Gli italiani dovrebbero imparare dai francesi ad aprire di più le fabbriche». È la lezione delle Journées Particulières di Lvmh, che per alcuni giorni all’anno ammettono i visitatori negli atelier del gruppo, la maggior parte dei quali in Italia, per mostrare come nasce un oggetto di lusso (e tanta è l’enfasi sulla manualità Made in Italy che in Cina Louis Vuitton è considerato più un marchio italiano che francese, come racconta una ricerca del Politecnico di Milano, datata 2010).
«Da anni sostengo che bisognerebbe lavorare tutti insieme — sistema moda, turismo, indu- stria alimentare — per una promozione non centrata solo sulle città d’arte, ma anche sui nostri distretti, le nostre fabbriche, perché questa operazione porterebbe valore. Pensiamo solo a quello che hanno saputo fare nel settore dei vini — chiude Corbellini —. Oggi se vado da Antinori posso vedere la cantina. Mi piacerebbe poter fare lo stesso nella manovia di Ferragamo perché questo è il vantaggio competitivo che ci connota. Krizia può anche diventare cinese, ma i tessuti di Biella non sono imitabili».
Meglio tornare a casa
Il rientro in Italia di alcune delle produzioni, portate all’estero negli anni della grande fuga verso Paesi con un basso costo del lavoro, è il fenomeno più eclatante del rinnovato interesse per il Made in Italy. Un rientro «molto pilotato dal mercato — riprende Bettiol —. Sono produzioni di altissima qualità non di quantità: più la fascia di mercato di riferimento va verso l’alto, più il ritorno è sostenibile». Diadora, per esempio: ha riportato in Italia solo la parte di produzione alta, quasi per collezionisti. «Il reshoring (il ritorno delle produzioni in Italia) significa nuovi posti di lavoro, mantenimento delle competenze, creazione di valore nel Paese — dice Andrea Zanoni, professore di Gestione aziendale all’Università di Bologna —. Soprattutto nel settore moda, significa che le imprese vogliono mantenere un controllo molto forte sul know how. Penso che l’effetto reshoring si farà sentire ancora per parecchio tempo. Molte imprese avevano deciso di andare nei paesi low cost senza considerarne gli effetti negativi. E sono rientrate in modo precipitoso».
Bettiol introduce un altro elemento: i prodotti di fascia media, in sofferenza in un mercato sempre più polarizzato, lusso da una parte, low cost dall’altra. «La fascia media, molto rappresentativa del Made in Italy, ha bisogno di essere riqualificata e richiede uno sforzo ancora maggiore di comunicazione: chi compra è disposto ad andare oltre il brand se in cambio ha qualità e trasparenza sulla filiera e sui processi di produzione, sempre meno anonimi». Il cliente chiede di più: vuole conoscere e vuole poter personalizzare ciò che compra. «Il digitale, in questo, è cruciale sia per quanto riguarda la comunicazione (Internet) sia per nuove tecnologie produttive (scanner 3D, robotica) che potrebbero rendere personalizzabile anche un prodotto di prezzo medio», chiude il professore. Non solo: le tecnologie digitali sono anche la chiave per rendere più corto, diretto e meno costoso il canale commerciale (un caso di successo è la partnership di Reda con Lanieri, star up per la vendita online di abiti su misura).
Lusso culturale: così Marco Vidal, famiglia veneziana della profumeria (quella del bagnoschiuma Vidal e dello spot del cavallo bianco che corre sulla spiaggia) chiama le proprie essenze nate da una ricerca non solo tecnologica, ma soprattutto storica. Ed è forse l’espressione che meglio riassume il Made in Italy.
«Se diamo un filo a 4 imprenditori italiani faranno 4 tessuti diversi; se lo diamo a 4 tedeschi, faranno 4 tessuti uguali»