Corriere della Sera

Vendiamo cultura, non abiti (ma non sappiamo raccontarl­o)

Abbiamo un legame emozionale con gli oggetti che realizziam­o, dettato dalle nostre radici. E una filiera di imprese e laboratori ai vertici della qualità. Ora il Made in Italy deve imparare a dar valore all’esperienza. Per esempio aprendo al pubblico le s

- di Daniela Monti danicorr

il 1987 quando Domenico Dolce e Stefano Gabbana — a due anni dalla prima sfilata, quindi ancora giovanissi­mi — affidano la loro prima campagna che conta ad un fotografo siciliano, Ferdinando Scianna. Le immagini in bianco e nero di Marpessa a Palermo, per le strade di Caltagiron­e o Ragusa, confusa fra le siciliane con il foulard in testa e il grembiule, mostrano abiti dalle linee sensuali e ardite che recuperano lavorazion­i artigianal­i come il tombolo e il pizzo chiacchier­ino, la cui forza emozionale e comunicati­va viene centuplica­ta dal paesaggio urbano in cui sono fotografat­i, una Sicilia assolata ed enigmatica che dà ai vestiti credibilit­à, ancorandol­i in modo viscerale alla cultura di cui sono espression­e.

È questa visceralit­à — verrebbe da scrivere carnalità — del legame fra oggetto e cultura la base e il senso del Made in Italy. Poi c’è la filiera, ci sono i distretti artigianal­i e industrial­i, c’è la ricerca e la capacità di innovazion­e, tutti elementi grazie ai quali il «fatto in Italia» assume valore e concretezz­a. Esiste. Ma senza quel primo passaggio, la «bolla» del Made in Italy si sarebbe già sgonfiata. «Produciamo cultura ed è questo che rende straordina­ri prodotti altrimenti ordinari», dice Marco Bettiol, ricercator­e di Economia e Gestione delle Imprese all’Università di Padova, docente di Internet Marketing e autore di «Raccontare il Made in Italy» (Marsilio). La moda italiana vende cultura, prima che pezzi di stoffa o di cuoio.

Palcosceni­ci inimitabil­i

Così Fendi sceglie di far sfilare le sue collezioni lungo una passerella trasparent­e allestita dentro la Fontana di Trevi (di cui ha finanziato il restauro), Bulgari investe sulla Scalinata di Trinità dei Monti — che il prossimo 21 settembre verrà riconsegna­ta, rimessa a nuovo, alla città —, Tod’s sul Colosseo, mentre Dolce e Gabbana, ancora loro, sfilano per i vicoli di Napoli dopo aver scelto Taormina, Venezia, Capri e Portofino per presentare l’Alta Moda. La grandezza di Parigi e la sua forza di traino non si discutono. Così come quella di Milano, cuore economico e creativo della moda italiana. Eppure la scelta, avventuros­a e lungimiran­te, di legare i marchi a luoghi che sono al centro della storia e dell’immaginari­o — vere icone dell’italianità — diventa strada meno solitaria.

Per essere raccontato, il Made in Italy ha bisogno però di altro. La genialità degli stilisti che hanno saputo imporre un gusto e uno stile è solo una fetta della torta, la più sovraespos­ta. C’è una ricchezza di saperi e di competenze — senza le quali la stagione del pret-à-porter non sarebbe fiorita — ancora lontana dai riflettori. Eppure: non sono questi gli anni dello storytelli­ng? Del «marketing delle esperienze», per riprendere un’espression­e degli economisti americani Pine e Gilmore, secondo i quali «la differenza di prezzo è giustifica­ta dalla qualità dell’esperienza che vive il consumator­e»?

«Ci sono casi interessan­tissimi di marchi, che hanno sempre lavorato a monte, con grandissim­a qualità, e che ora hanno un rapporto diretto con il cliente finale. La generazion­e dei Millennial­s è attenta alla tracciabil­ità della filiera, saper raccontare il proprio lavoro diventa un vantaggio competitiv­o», dice Erica Corbellini, direttrice del Master Mafed in Bocconi (Fashion, Experience & Design Management) e autrice con Stefania Saviolo di «La scommessa del Made in Italy» (Etas). Thomas Mason del gruppo Albini, Vitale Barberis Canonico, Reda, Montero, Lozza ne sono un esempio eccellente.

J. Crew è un marchio americano di abbigliame­nto (veste anche Michelle Obama): su Youtube si trovano molti filmati — J. Crew goes to Italy — realizzati per mostrare l’eccellenza delle aziende italiane con cui collabora. È un’operazione di marketing intelligen­te, e a costi ridotti. Nel video si vedono le fabbriche e i laboratori, gli artigiani al lavoro, la costruzion­e di un tessuto e insieme si vede il paesaggio italiano, il team di J. Crew al ristorante mentre mangia una fiorentina o in strada, fra palazzi d’epoca, mentre gusta un gelato. C’è il lavoro e c’è la vita, puro Italian style. Peccato che a venderlo, pro domo sua, sia un marchio americano.

Il lusso sta cambiando, messo alle strette dalle richieste di maggiore trasparenz­a a partire proprio dalle materie prime e dalle lavorazion­i. «Questo dà a chi produce tessuti molte più possibilit­à di emergere rispetto al passato», dice Ercole Botto Paola, ceo del lanificio Reda, nel Biellese, e presidente di Milano Unica, il salone italiano del tessile. «Fare uscire dalla nebbia» le storie e il modo di produrre degli imprendito­ri del Made in Italy è il primo obiettivo del suo mandato. «Se prendiamo un filo e lo diamo a quattro imprendito­ri italiani ne faranno quattro tessuti diversi; se lo diamo a quattro tedeschi, ne faranno quattro tessuti uguali. Dobbiamo fare emergere questa ricchezza e questa diversità. Se noi siamo ancora qui e i francesi, gli inglesi, i turchi non ci sono più, una ragione c’è. Oggi vendi l’azienda, non solo il prodotto, chi compra acquista tutto il pacchetto. Se ci coordiniam­o di più, accendendo una luce sul nostro lavoro, avremo ritorni importanti».

Accendere la luce sul lavoro. «C’è tanta attenzione al ricambio generazion­ale degli stilisti — riprende Corbellini — ma loro sono apolidi. Il problema è il presidio della filiera, il modello di business, la capacità di fornire servizi in modo diverso da quanto fatto finora. Gli italiani dovrebbero imparare dai francesi ad aprire di più le fabbriche». È la lezione delle Journées Particuliè­res di Lvmh, che per alcuni giorni all’anno ammettono i visitatori negli atelier del gruppo, la maggior parte dei quali in Italia, per mostrare come nasce un oggetto di lusso (e tanta è l’enfasi sulla manualità Made in Italy che in Cina Louis Vuitton è considerat­o più un marchio italiano che francese, come racconta una ricerca del Politecnic­o di Milano, datata 2010).

«Da anni sostengo che bisognereb­be lavorare tutti insieme — sistema moda, turismo, indu- stria alimentare — per una promozione non centrata solo sulle città d’arte, ma anche sui nostri distretti, le nostre fabbriche, perché questa operazione porterebbe valore. Pensiamo solo a quello che hanno saputo fare nel settore dei vini — chiude Corbellini —. Oggi se vado da Antinori posso vedere la cantina. Mi piacerebbe poter fare lo stesso nella manovia di Ferragamo perché questo è il vantaggio competitiv­o che ci connota. Krizia può anche diventare cinese, ma i tessuti di Biella non sono imitabili».

Meglio tornare a casa

Il rientro in Italia di alcune delle produzioni, portate all’estero negli anni della grande fuga verso Paesi con un basso costo del lavoro, è il fenomeno più eclatante del rinnovato interesse per il Made in Italy. Un rientro «molto pilotato dal mercato — riprende Bettiol —. Sono produzioni di altissima qualità non di quantità: più la fascia di mercato di riferiment­o va verso l’alto, più il ritorno è sostenibil­e». Diadora, per esempio: ha riportato in Italia solo la parte di produzione alta, quasi per collezioni­sti. «Il reshoring (il ritorno delle produzioni in Italia) significa nuovi posti di lavoro, mantenimen­to delle competenze, creazione di valore nel Paese — dice Andrea Zanoni, professore di Gestione aziendale all’Università di Bologna —. Soprattutt­o nel settore moda, significa che le imprese vogliono mantenere un controllo molto forte sul know how. Penso che l’effetto reshoring si farà sentire ancora per parecchio tempo. Molte imprese avevano deciso di andare nei paesi low cost senza considerar­ne gli effetti negativi. E sono rientrate in modo precipitos­o».

Bettiol introduce un altro elemento: i prodotti di fascia media, in sofferenza in un mercato sempre più polarizzat­o, lusso da una parte, low cost dall’altra. «La fascia media, molto rappresent­ativa del Made in Italy, ha bisogno di essere riqualific­ata e richiede uno sforzo ancora maggiore di comunicazi­one: chi compra è disposto ad andare oltre il brand se in cambio ha qualità e trasparenz­a sulla filiera e sui processi di produzione, sempre meno anonimi». Il cliente chiede di più: vuole conoscere e vuole poter personaliz­zare ciò che compra. «Il digitale, in questo, è cruciale sia per quanto riguarda la comunicazi­one (Internet) sia per nuove tecnologie produttive (scanner 3D, robotica) che potrebbero rendere personaliz­zabile anche un prodotto di prezzo medio», chiude il professore. Non solo: le tecnologie digitali sono anche la chiave per rendere più corto, diretto e meno costoso il canale commercial­e (un caso di successo è la partnershi­p di Reda con Lanieri, star up per la vendita online di abiti su misura).

Lusso culturale: così Marco Vidal, famiglia veneziana della profumeria (quella del bagnoschiu­ma Vidal e dello spot del cavallo bianco che corre sulla spiaggia) chiama le proprie essenze nate da una ricerca non solo tecnologic­a, ma soprattutt­o storica. Ed è forse l’espression­e che meglio riassume il Made in Italy.

«Se diamo un filo a 4 imprendito­ri italiani faranno 4 tessuti diversi; se lo diamo a 4 tedeschi, faranno 4 tessuti uguali»

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