L’ALLARME DEL FIGLIO DI RABIN SUL LINGUAGGIO E LA VIOLENZA
Che le parole possano uccidere l’ha imparato la sera di novembre del 1995 in cui hanno sparato a suo padre. Ammazzato da quello che i servizi segreti hanno definito «un lupo solitario». Se è un individuo a colpire, le responsabilità collettive sono diluite: la spiegazione investigativa è sembrata agli israeliani un modo di assolvere dalla complicità, quantomeno morale, gli avversari politici che per mesi avevano istigato e incitato. Odio verso il primo ministro laburista che aveva osato firmare il trattato di pace con i palestinesi, aveva accettato di restituire i territori catturati nella guerra del 1967.
Yitzhak Rabin è stato ucciso da Yigal Amir ed è stato prima eliminato da chi lo ha ritratto come un criminale nazista, lo ha delegittimato, ha fatto credere che avesse tradito e indebolito Israele. Il figlio Yuval, che oggi ha 61 anni, ha sentito l’assonanza, il rullare del rancore: i toni oltranzisti per trasformare l’altra parte, il contendente con le idee diverse, in nemico da abbattere. E ha voluto avvertire gli americani, ha provato a spiegare — con un editoriale sul quotidiano Usa Today — che gli attacchi (verbali) di Donald Trump, quegli appelli (ovviamente distorti dalla stampa, secondo il candidato repubblicano) al popolo del Secondo emendamento perché fermi Hillary Clinton, lo hanno riportato all’autunno del 1995. La destra che aizza gli estremisti contro il padre, sempre a parole come Trump, sempre smentendo. Dopo. Ha la certezza, lo ha imparato nel dolore, che i comizi spargano semi pericolosi.
Yuval Rabin individua il peggiore di questi granelli maligni: insinuare che il sistema democratico sia marcio, che la Patria stia frantumandosi, che l’unico modo per proteggere la nazione è prendersi la responsabilità di agire, da soli ma con gli slogan che risuonano nella testa. Di premere il grilletto tre volte come Yigal Amir.