Corriere della Sera

L’universo di Leskov galoppa

«Il viaggiator­e incantato» è il miglior racconto dell’Ottocento russo. Centrale è la figura del monacopala­dino Ivan, domatore di cavalli che si rivelano quasi delle belve. E spicca l’immagine della zingara Gruša

- Di Pietro Citati

Il viaggiator­e incantato, che Nikolaj Leskov compose nel 1873, è il più bel racconto dell’Ottocento russo (mirabile la traduzione di Tommaso Landolfi): la Russia è viaggio, avventura, steppa, fede religiosa ed eroica, infinita latitudine e profumo, né città né cultura. Sulla nave che attraversa il lago Ladoga, ecco un uomo di enorme statura, con un viso abbronzato ed aperto, e folti capelli ondulati di un colore di piombo. Porta la zimarra da novizio, con un largo cordone monastico alla cintura, e un’alta berretta nera da monaco.

È un uomo «vissuto», ardito e sicuro di sé, che parla con una gradevole e manierata voce di basso, lasciando andare pigramente e mollemente parole su parole, sotto i folti baffi canuti. Sembra un paladino antico: un semplice paladino russo, che rammenta il vecchio Il’ja Muromec. In primo luogo, è un narratore: tutta la sua immensa esperienza è divenuta racconto. Racconta e poi racconta: noi non leggiamo ma ascoltiamo la voce, come se tutta la realtà fosse voce.

Il monaco–paladino — si chiama Ivan Sever’jaync, ma in convento padre Ismail — è un intenditor­e e domatore di cavalli. «Migliaia di cavalli, dice, ho scelto ed ammansito». Questi cavalli sono quasi delle belve: domarli rivela, in lui, la passione e la vocazione di Ercole. «Appena montato, non lascio rinvenire il cavallo: colla sinistra lo afferro a tutta forza e lo tiro da parte, e colla destra, col pugno, gli do tra gli orecchi sulla zucca, e comincio ad arrotare terribilme­nte i denti, così che perfino gli viene, a qualcuno, il cervello dalla fronte nelle narici insieme al sangue, e lui si sottomette. Poi scendo, lo accarezzo, lascio che mi contempli negli occhi, perché gli rimanga una bella immagine nella memoria».

Se prima il cavallo cerca di mordere Ivan alle ginocchia, come se fosse posseduto da un demone, ora gli si affeziona. «Lo montai, quel mangiatore di uomini, senza camicia, scalzo, soltanto colle brache e col berretto, portando sul corpo nudo un cinturino di fettuccia del santo principe Vsevolod Gavriil di Novogorod, al quale ero molto devoto». Ivan confuse la vista al cavallo, gli diede collo scudiscio, non lo lasciò rifiatare: lo fece tremare collo stridore dei denti; finché si stancò e gli cadde davanti in ginocchio. Gli zingari mettono in giro la voce che

lui è uno stregone. In realtà capisce i cavalli, li vede, come dice, attraverso: un dono di natura che non può trasmetter­e a nessun altro.

Quanti cavalli percorrono queste pagine meraviglio­se, finché diventiamo, noi lettori, cavalli e cavalcator­i! Cavalli chirghisi, veri selvaggi, belve terribili, che non si assoggetta­no, amano la libertà della steppa, torcono gli occhi al cielo come gli uccelli: fiere, basilischi, con occhi digrignant­i come pugnali. Non conoscono stanchezza.

Quando Ivan li lascia, sta attento a che non spicchino il volo. Alcuni cavalli li chiama astronomi: appena li tira, essi subito rizzano il capo, e chissà cosa contemplan­o in cielo. Non appena

vede che salgono troppo, dà loro sul muso. C’è la bellissima giumenta bianca, che drizza gli orecchi, sbuffa e scalpita: ha la testa piccola, l’occhio colmo, orecchi sensibili, fianchi snelli e sonori, gambe leggere e affilate. Un sudicio ragazzo le balza in groppa, cavalcando al modo tartaro, serrandola con i ginocchi: quella mette le ali volando come un uccello, e quando il ragazzo le si piega sulla groppa, lanciandol­e grida d’incitament­o, lei s’alza in turbine.

Ivan attraversa il fiume, percorre la steppa, dove rimane per dieci anni. Una vista torrida, atroce: spazio senza confine: un subisso d’erba; la stipa bianca, piumosa, come un mare d’argento, ondeggia, e colla brezza viene odor di

pecora. Il sole picchia su tutto, e arde. Ivan non scorge da nessuna parte una fine, e in lui nasce una malinconia senza fondo. Nelle saline sul mar Caspio, il sole brucia, e il sale e il mare brillano. Il suo stordiment­o è terribile. Non sa più dove, in quale parte del mondo sia: se è vivo, oppure morto e sta soffrendo in un inferno senza speranza per i suoi peccati. Dove c’è più stipa, la steppa è più allegra: per le prode di tratto in tratto Ivan vede, grigiazzur­ri, la salvia o l’assenzio, e la santoreggi­a screzia il bianco; mentre nella salina c’è sempre e solo quel ribrillio. Non c’è nessun animale: soltanto, come per scherzo, un piccolo uccelletto, un beccorossi­no, simile alla nostra rondine, ma con un orlo rosso ai labbri. «Tu sei sempre lì, quasi senza vita; e se muori, ti mettono nel sale, e resti lì; come un pezzo di carne salata, sino alla fine del mondo».

Quando Ivan giunge nella steppa, un tartaro lungo e magro come una pertica sta seduto su un feltro variopinto, con in capo uno zucchetto d’oro. Si chiama Can Džangar: è il più grande allevatore di cavalli di tutta la steppa; le sue mandrie vanno dalla Volga agli Urali; e nella steppa è

 ??  ?? Andrea Galvani (1973), Death of an image #9, (2006, stampa fotografic­a, Collection Agi Verona), esposta al Mart di Rovereto nel 2010 nella mostra Linguaggi e sperimenta­zioni
Andrea Galvani (1973), Death of an image #9, (2006, stampa fotografic­a, Collection Agi Verona), esposta al Mart di Rovereto nel 2010 nella mostra Linguaggi e sperimenta­zioni
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy