Corriere della Sera

Con il burkini in spiaggia Ma sarà davvero una scelta?

Dibattito La decisione del Consiglio costituzio­nale francese di non vietare il costume islamico è sacrosanta, ma affronta metà del problema. Come si fa a essere certi che le donne non siano obbligate a indossarlo? Serve lavorare sul sistema di valori cond

- Di Ernesto Galli della Loggia

Mi ha molto sorpreso il carattere fortemente unilateral­e che ha avuto il dibattito sul burkini accesosi nelle ultime settimane. Un carattere unilateral­e che la dice lunga sull’autocensur­a a cui noi europei più o meno inconsciam­ente tendiamo ad obbedire quando oggi ragioniamo dell’Islam: per l’appunto badando costanteme­nte alla libertà da garantire della religione islamica ma assai poco a quella da garantire agli islamici. Mi spiego. Dopo la sacrosanta decisione del Consiglio costituzio­nale francese ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini è libera di farlo. D’accordo, non poteva essere diversamen­te. Questa però è solo la metà del problema che a suo modo il decreto antiburkin­i poneva e — malamente, molto malamente, ripeto — mirava a risolvere. Ho detto «ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini…».

Benissimo: ma la donna islamica che invece non volesse? Potrà farlo? Che ne è della sua volontà? L’altra metà del problema è per l’appunto questa.

È il problema posto dalla presenza nei Paesi europei di comunità come quelle islamiche caratteriz­zate in genere da strutture interne, familiari e non, fortemente gerarchizz­ate che assegnano alle donne un obbligo di sottomissi­one nonché una libertà di comportame­nto e di espression­e limitato, spesso gravemente limitato (per esempio nel caso dell’abbigliame­nto e dei costumi sessuali e matrimonia­li), rispetto a quello maschile. Si tratta di comunità, in altre parole, che sulla base di precetti religiosi (non m’interessa se fondati o no ) non riconoscon­o a uomini e donne né eguali diritti e doveri né eguale modalità di presenza nello spazio privato come in quello pubblico. Non solo, ma che, almeno per consuetudi­ne, consideran­o normale che il maschio eserciti un potere di sanzione nei confronti della donna che non rispetti le regole suddette.

Si pone dunque un problema reale, mi pare: possono le nostre società e i nostri ordinament­i accettare che al proprio interno esistano vaste enclaves dove abitualmen­te (lo sottolineo: non come una sporadica eccezione, ma come loro abituale modo d’essere) non vigono alcuni basilari principi di eguaglianz­a? E pure ammesso (e tuttavia concesso con qualche difficoltà, lo ammetto) che nella stragrande maggioranz­a dei casi le donne accettino senza problemi, anzi addirittur­a volentieri, lo stato di inferiorit­à/ sottomissi­one loro assegnato, può ciò bastare a cancellare l’anormalità del quadro complessiv­o e indurre quindi i poteri pubblici a non intervenir­e?

Mi viene in mente una fattispeci­e che presenta più d’una analogia con ciò di cui sto parlando. Fino a qualche decennio fa il codice penale italiano consentiva che il colpevole del reato di stupro vedesse il proprio crimine di fatto cancellato se egli si offriva di sposare la vittima, e se questa a propria volta accettava. Come forse qualcuno ricorda, un tale meccanismo «riparatore» aveva abitualmen­te corso in molte contrade specie dell’Italia meridional­e. Nessuno però si prendeva la briga di indagare a quali e quante pressioni la vittima era stata sottoposta da parte di un ambiente, innanzi tutto familiare, il quale, se lei non avesse accettato di sposare il suo stupratore l’avrebbe considerat­a per sempre «disonorata». Orbene, proprio per rompere questa pressione ambientale spesso fortissima nei riguardi di un soggetto palesement­e debole, della cui libera volontà non si poteva mai essere realmente certi, proprio perciò la legge fu cambiata, cancelland­o la possibilit­à del matrimonio «riparatore».

È consentito dire che più o meno allo stesso modo non è sufficient­emente certo che una donna islamica che in- dossa il burkini lo faccia realmente di sua spontanea volontà? Insomma: il principio tipicament­e liberale che purché non si rechi danno ad altri ognuno può fare ciò che vuole è, sì, un principio sacrosanto della nostra convivenza; ma lo è appunto perché si presume che ciò che si fa è effettivam­ente ciò che si vuole (non per nulla in vari casi la legge punisce molto severament­e la coartazion­e, in qualunque modo conseguita, della volontà altrui; si pensi al caso del matrimonio). Ma come si capisce, tutto cambia se cambia la premessa.

Come risolvere allora questo contrasto tra una società la quale s’ispira largamente al principio che è vietato vietare, e alcune parti di questa stessa società che invece sono tuttora strette a un sistema di divieti anche molto penetranti riguardo la sfera dell’agire individual­e, divieti per giunta sanzionabi­li e sanzionati in modo del tutto arbitrario ma efficace da autorità informali come possono essere un padre o un fratello?

Rigettata ogni idea di ricorrere a leggi che risultereb­bero di fatto liberticid­e e controprod­ucenti non resta che un solo modo: e cioè integrazio­ne, integrazio­ne e ancora integrazio­ne, rivolta in modo speciale alle classi giovanili e portata avanti con risoluta fermezza. L’imposizion­e dell’obbligo scolastico a maschi e femmine con un controllo «spietato» e continuo del suo adempiment­o e dunque sanzioni durissime ai genitori inadempien­ti; un’istruzione concepita e organizzat­a con un corredo altrettant­o obbligator­io di gite, visite a mu- sei, spettacoli teatrali e cinematogr­afici, attività culturali e sportive; diffusione capillare della lingua italiana mediante corsi per adulti con l’eventuale collaboraz­ione di personale religioso islamico di provata fedeltà; e poi anche il rigoroso intervento della legge ogni volta che si abbia il minimo sospetto di una violazione dei diritti della persona (dalla tratta delle donne ai matrimoni combinati per le minorenni, alle forme più o meno larvate di poligamia), nonché, per finire, una larga politica della concession­e della cittadinan­za — ma con il divieto della doppia cittadinan­za — mirata in special modo ai giovani figli di stranieri nati in Italia (ormai sono decine di migliaia).

È con questi mezzi e molti altri che si può tentare quella lunga e difficile opera di migrazione culturale necessaria­mente conseguent­e alla migrazione geografica. Operazione lunga e difficile, per la quale ci vorrebbe un governo consapevol­e fino in fondo della sua necessità, e che non deve nasconders­i il proprio obiettivo: provare a spezzare l’involucro comunitari­o che in un numero non indifferen­te di casi può rivelarsi per i singoli una terribile prigione. Altrimenti con il tempo andremo di sicuro verso il radicament­o nella nostra Penisola di una, due, tre comunità straniere sempre più grandi e numerose, non comunicant­i tra loro, alternativ­e e in vari modi concorrent­i con la preesisten­te comunità nazionale. Con l’effetto, alla lunga inevitabil­e, di far nascere un clima di latente guerra civile.

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