NEL GHETTO DI VENEZIA UOMINI E COSE
Forse nessuna città si presta ad essere raccontata in prosa o con immagini — siano esse dipinti o fotografie — come Venezia. Vengono in mente John Ruskin (Le pietre di Venezia), Rainer Maria Rilke (Una scena nel Ghetto di Venezia dalle Storie del buon Dio), Iosif Brodskij (Fondamenta degli Incurabili, dedicato all’amico Robert Morgan che in Laguna aveva preso lo studio di Filippo de Pisis) e, adesso, Ferdinando Scianna (Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo), anche se, come suole dirsi, «cantare Venezia è complicato perché è una materia usurata».
Sia Brodskij (seppellito nel cimitero di San Michele, accanto a Pound e Stravinskij) che Scianna (1943, nella foto sotto: l’unico italiano a far parte dell’agenzia Magnum, fondata da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson nel 1947) hanno raccontato su commissione. Del Consorzio Venezia Nuova, il premio Nobel russo; della Fondazione Venezia, il fotografo siciliano.
Il Ghetto ebraico, nel sestiere di Cannaregio, è sorto nel 1516. Il nome deriva da una fonderia in cui veniva «gettato» (da qui «getto» o «ghetto») il metallo per le navi all’Arsenale. Quindi, Ghetto come luogo di segregazione. Per l’anniversario, Scianna s’è installato un paio di settimane nella Serenissima per scandagliare, alla sua maniera, uomini e cose. Da qui, la mostra (Casa dei tre Oci, sino all’8 gennaio 2017), curata da Denis Curti, e un libro-catalogo (Marsilio, pp. 102, € 25,50). Macchina fotografica in mano, Ferdinando è andato in giro a condensare, in una cinquantina di immagini, cinque secoli di un «teatro» che offre — per chi sa coglierle — vicende e sensazioni dove la storia si manifesta persino in particolari minimi. Visto dall’alto del Giardino dei Melograni, un uomo — cappello a falde larghe — attraversa il Ghetto, diretto alla sinagoga. Sul rio, le case a sette piani (potevano svilupparsi solo in altezza) si raddoppiano, specchiandosi sull’acqua. Si racconta che, nel XVI secolo, quattro guardie aprivano le porte al mattino e le chiudevano al sopraggiungere della notte («protezione» o «controllo»?). Poi le architetture cominciano a popolarsi. Ecco i bambini che alternano la loro fuga fra le arcate o giocano attorno ai tre pozzi con ancora visibile lo stemma in pietra della famiglia che li possedeva; il «banco rosso» dei pegni ricomposto per i turisti, dietro cui sta un «consulente» in costume d’epoca; l’insegnamento del rabbino all’interno della sinagoga Levantina; le cene di Shabbat.
Non mancano i ritratti: Ziva Kraus, titolare della Galleria Ikona, l’artista Michal Meron e l’assistente Yehuda Nathan Lev Cristofoli, il «pregiato intagliatore» Emilio Piasentini, visto in una cornice-specchio (l’insieme dà l’idea di una sacrestia); il rabbino Rav Scialom Babhout che si copre con un grande scialle per prepararsi alla preghiera; la direttrice del Museo ebraico Marcella Ansaldi. Quindi, le ospiti della Casa di riposo: Enrichetta Silva con i suoi «102 anni decenti e sereni» e Virginia Gattegno, i cui «92 anni scintillano di grazia, eleganza fisica e morale, ironia dentro le quali avvolge lucide memorie, che lei racconta con incantevole, spiritosa leggerezza».
Riecheggiano le parole di Brodskij: «A poco a poco, con la lenta navigazione di una chiatta, la città si mette a fuoco. In bianco e nero, come si addice a un’immagine che affiora dalla letteratura, o dall’inverno: aristocratica, un po’ fosca, fredda, in una luce scialba, con accordi di Vivaldi e Cherubini per sottofondo, con corpi femminili drappeggiati, quelli di BelliniTintoretto-Tiziano al posto delle nuvole».
Da oggi fino a lunedì 5 settembre, al Centro Esposizioni di Lugano va in mostra il «meglio» dell’arte su carta: un lungo catalogo, messo insieme dal comitato scientifico coordinato da Giandomenico Di Marzio e Paolo Manazza, con una cinquantina di gallerie internazionali, un fitto elenco di eventi collaterali (esposizioni, conversazioni, approfondimenti). E, soprattutto, un grande universo di carta, costellato di nomi che hanno letteralmente fatto la storia dell’arte (Solimena e Chagall, il Grechetto e Robert Indiana, Balla e Hsiao Chin, Tiepolo e Kentridge).
Tutto per la prima edizione nella città ticinese di WopArt / Work on Paper Fair (www.wopart.eu), fiera internazionale delle opere su carta (dal disegno antico alla stampa moderna, dai libri d’artista alla fotografia, dall’acquerello giapponese alle elaborazioni dei contemporanei). L’importante è che sia carta. Una fiera dunque, con mercanti, compratori e stime (variabili): 1,6 milioni di euro per La mariée di Picasso (1969); 5 mila per la Santa Caterina del Moncalvo (XVII secolo); 15 mila per Negativo Positivo di Bruno Munari (1996); 18 mila per Malinconia di Giosetta Fioroni (1969).
Il percorso racconta, in particolare, l’evoluzione della carta, da semplice supporto tecnico per