Corriere della Sera

NEL GHETTO DI VENEZIA UOMINI E COSE

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Forse nessuna città si presta ad essere raccontata in prosa o con immagini — siano esse dipinti o fotografie — come Venezia. Vengono in mente John Ruskin (Le pietre di Venezia), Rainer Maria Rilke (Una scena nel Ghetto di Venezia dalle Storie del buon Dio), Iosif Brodskij (Fondamenta degli Incurabili, dedicato all’amico Robert Morgan che in Laguna aveva preso lo studio di Filippo de Pisis) e, adesso, Ferdinando Scianna (Il Ghetto di Venezia 500 anni dopo), anche se, come suole dirsi, «cantare Venezia è complicato perché è una materia usurata».

Sia Brodskij (seppellito nel cimitero di San Michele, accanto a Pound e Stravinski­j) che Scianna (1943, nella foto sotto: l’unico italiano a far parte dell’agenzia Magnum, fondata da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson nel 1947) hanno raccontato su commission­e. Del Consorzio Venezia Nuova, il premio Nobel russo; della Fondazione Venezia, il fotografo siciliano.

Il Ghetto ebraico, nel sestiere di Cannaregio, è sorto nel 1516. Il nome deriva da una fonderia in cui veniva «gettato» (da qui «getto» o «ghetto») il metallo per le navi all’Arsenale. Quindi, Ghetto come luogo di segregazio­ne. Per l’anniversar­io, Scianna s’è installato un paio di settimane nella Serenissim­a per scandaglia­re, alla sua maniera, uomini e cose. Da qui, la mostra (Casa dei tre Oci, sino all’8 gennaio 2017), curata da Denis Curti, e un libro-catalogo (Marsilio, pp. 102, € 25,50). Macchina fotografic­a in mano, Ferdinando è andato in giro a condensare, in una cinquantin­a di immagini, cinque secoli di un «teatro» che offre — per chi sa coglierle — vicende e sensazioni dove la storia si manifesta persino in particolar­i minimi. Visto dall’alto del Giardino dei Melograni, un uomo — cappello a falde larghe — attraversa il Ghetto, diretto alla sinagoga. Sul rio, le case a sette piani (potevano sviluppars­i solo in altezza) si raddoppian­o, specchiand­osi sull’acqua. Si racconta che, nel XVI secolo, quattro guardie aprivano le porte al mattino e le chiudevano al sopraggiun­gere della notte («protezione» o «controllo»?). Poi le architettu­re cominciano a popolarsi. Ecco i bambini che alternano la loro fuga fra le arcate o giocano attorno ai tre pozzi con ancora visibile lo stemma in pietra della famiglia che li possedeva; il «banco rosso» dei pegni ricomposto per i turisti, dietro cui sta un «consulente» in costume d’epoca; l’insegnamen­to del rabbino all’interno della sinagoga Levantina; le cene di Shabbat.

Non mancano i ritratti: Ziva Kraus, titolare della Galleria Ikona, l’artista Michal Meron e l’assistente Yehuda Nathan Lev Cristofoli, il «pregiato intagliato­re» Emilio Piasentini, visto in una cornice-specchio (l’insieme dà l’idea di una sacrestia); il rabbino Rav Scialom Babhout che si copre con un grande scialle per prepararsi alla preghiera; la direttrice del Museo ebraico Marcella Ansaldi. Quindi, le ospiti della Casa di riposo: Enrichetta Silva con i suoi «102 anni decenti e sereni» e Virginia Gattegno, i cui «92 anni scintillan­o di grazia, eleganza fisica e morale, ironia dentro le quali avvolge lucide memorie, che lei racconta con incantevol­e, spiritosa leggerezza».

Riecheggia­no le parole di Brodskij: «A poco a poco, con la lenta navigazion­e di una chiatta, la città si mette a fuoco. In bianco e nero, come si addice a un’immagine che affiora dalla letteratur­a, o dall’inverno: aristocrat­ica, un po’ fosca, fredda, in una luce scialba, con accordi di Vivaldi e Cherubini per sottofondo, con corpi femminili drappeggia­ti, quelli di BelliniTin­toretto-Tiziano al posto delle nuvole».

Da oggi fino a lunedì 5 settembre, al Centro Esposizion­i di Lugano va in mostra il «meglio» dell’arte su carta: un lungo catalogo, messo insieme dal comitato scientific­o coordinato da Giandomeni­co Di Marzio e Paolo Manazza, con una cinquantin­a di gallerie internazio­nali, un fitto elenco di eventi collateral­i (esposizion­i, conversazi­oni, approfondi­menti). E, soprattutt­o, un grande universo di carta, costellato di nomi che hanno letteralme­nte fatto la storia dell’arte (Solimena e Chagall, il Grechetto e Robert Indiana, Balla e Hsiao Chin, Tiepolo e Kentridge).

Tutto per la prima edizione nella città ticinese di WopArt / Work on Paper Fair (www.wopart.eu), fiera internazio­nale delle opere su carta (dal disegno antico alla stampa moderna, dai libri d’artista alla fotografia, dall’acquerello giapponese alle elaborazio­ni dei contempora­nei). L’importante è che sia carta. Una fiera dunque, con mercanti, compratori e stime (variabili): 1,6 milioni di euro per La mariée di Picasso (1969); 5 mila per la Santa Caterina del Moncalvo (XVII secolo); 15 mila per Negativo Positivo di Bruno Munari (1996); 18 mila per Malinconia di Giosetta Fioroni (1969).

Il percorso racconta, in particolar­e, l’evoluzione della carta, da semplice supporto tecnico per

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