Corriere della Sera

Caccia agli scafisti

Con la Guardia costiera libica: soccorsi ai migranti, litigi con gli italiani

- dal nostro inviato Lorenzo Cremonesi

I due lunghi gommoni grigio-chiari rollano piano sulle onde dolci, in questo inizio di giornata estiva in condizioni metereolog­iche perfette per il Mediterran­eo meridional­e. Sono le otto e mezza di mattina a sedici miglia dalla costa, solo quattro miglia fuori dalle acque territoria­li libiche. Davanti a loro, a circa un miglio di distanza, è ferma la portaelico­tteri «Aliseo», dai cui pennoni alti sventola il tricolore. I marinai con l’uniforme bianca sono ben visibili, indaffarat­i sul ponte per calare in mare due lance e un canotto, su cui si legge in caratteri blu «Marina Militare Italiana». L’aria è talmente limpida che alle nostre spalle si può scorgere il tratto del litorale da Garabulli al biancore urbano di Tripoli. «Quanti siete? Ci sono donne o bambini?», gridiamo verso la selva di corpi scuri, che da quando ci hanno visto approcciar­li a bordo del motoscafo con le insegne della Guardia costiera libica si sono come immobilizz­ati dal terrore. Vorremmo rassicurar­li. «Siete fortunati. Presto dalla nave italiana verranno a prendervi», aggiungiam­o. Allora uno di loro, un tipo sulla trentina che si presenta come Mohammad, arrivato in Libia un anno fa dal Mali, risponde che sono circa 250, tra loro sei donne e due o tre bambini. «Il più piccolo ha otto mesi», urla e lo prende in braccio per mostrarlo. Ma, proprio mentre i migranti sembrano acquistare fiducia, uno dei tre militari libici con cui siamo a bordo, Aghil Usala di 22 anni, afferra il Kalashniko­v d’ordinanza con il caricatore innestato e lo punta minaccioso verso l’imbarcazio­ne più vicina. «Non vi muovete per alcun motivo, o sparo! Dobbiamo controllar­e», ordina rauco, nervoso, il dito sul grilletto.

E’ uno dei momenti più difficili dell’intera giornata. Uno di quegli episodi che catalizza la miriade di interessi contrastan­ti, drammi, incomprens­ioni, speranze e delusioni che caratteriz­zano il gigantesco traffico di esseri umani dalla Libia. In genere, è stato raccontato a bordo delle navi italiane, oppure in compagnia degli stessi migranti, ma mai dal punto di vista dei libici.

Nelle prigioni di Misurata, Tripoli e Khoms abbiamo incontrato centinaia di poveracci che sono stati arrestati sulle spiagge, o appena in mare, dopo anni di patimenti e sofferenze per guadagnare i 1.000 euro necessari al viaggio verso l’Italia. Non è raro che siano le stesse milizie libiche a farsi pagare per lasciarli passare. Sui muri delle celle sporche si leggono scritte a mano poesie di morte, preghiere, racconti di solitudine e disperazio­ne.

Il nostro motoscafo in vetroresin­a leggera è lungo sette metri, letteralme­nte vola a quasi cinquanta nodi, appena sfiora il mare alla prima luce dell’alba che illumina la superfice immobile nel porto di Khoms. Ogni ondina è uno spruzzo alto, passiamo qualche delfino, neppure i gabbiani in planata riescono a starci dietro. «Se ci sono migranti, li prendiamo subito. Le loro barche non vanno oltre i sei nodi. Hanno motori da 40 cavalli, noi siamo spinti da due fuoribordo nuovi di pacca da 250 l’uno. Con oltre 600 litri di benzina a bordo possiamo navigare veloci per almeno una decina d’ore», spiega Youssef Shatavi, il nostro capitano 27enne. E’ l’unico con un minimo d’esperienza in mare, per gli altri due soldati è il primo imbarco. Alle sei incontriam­o un pescherecc­io in legno con le reti a strascico. Segue un piccolo cargo. «Avevamo il radar, ma è rotto. I cellulari non funzionano al largo. Confidiamo nella radio. Però spesso non ci rispondono neppure dalla base», confida Youssef.

Erano due settimane che attendevam­o questo momento. Tre giorni fa ci eravamo già imbarcati nel pieno della notte, ma poi il vento teso con onde di oltre due metri nel Golfo della Sirte aveva bloccato tutti in porto, compresi i migranti. Dopo quasi due ore e mezza di navigazion­e spaccaossa, dalla radio giunge l’inconfondi­bile accento del meridione italiano. «Due gommoni, con forse centinaia di persone a bordo», si capisce tra il gracchiare delle interferen­ze. Appena intercetta­to il nome della nave «Aliseo», già la sua sagoma grigiastra si profila all’orizzonte. Anche a occhio nudo si distinguon­o a prua i due gommoni dei migranti. Sono lunghi almeno 12 metri, bassi, con i passeggeri accoccolat­i sui tubolari. Hanno spento il motore, anche se poi a bordo di ognuno scopriremo una quindicina di taniche da 20 litri, tutte ancora piene di benzina. «Con tutto quel carburante potevano tranquilla­mente arrivare in Italia», dirà Youssef.

La prima reazione dei libici sarebbe di agganciare al traino i due gommoni e riportarli a riva. Per loro sarebbe un bel «bottino». Per pagare le spese dei pattugliam­enti (e non solo!) i comandi hanno promesso almeno il 50 per cento dei valori delle barche e dei motori ai loro uomini. Non sembra che Youssef sia bene a conoscenza delle norme del diritto internazio­nale. Siamo fuori dalle acque territoria­li libiche, anche se di poco, e gli italiani hanno individuat­o i migranti per primi. Con i suoi uomini stanno stimando il costo dei due motori Yamaha da 40 cavalli, sembrano in ottimo stato. Intanto dalla nave madre arrivano le lance degli italiani. Un tenente di vascello ci chiede di allontanar­ci «per cortesia», mentre vengono gettati i giubbotti salvagente ai migranti. Youssef attende paziente che il primo gommone venga evacuato, quindi accelera a tutto gas e accosta. I suoi due marinai fanno per staccare il fuoribordo, quando arriva il tenente di vascello italiano per dichiarare che il tutto è sotto sequestro. «Qui siamo sulla scena di un salvataggi­o. Potrebbe esserci stato un crimine. Secondo le leggi del mare, tocca a noi italiani portare a Taranto ogni elemento che possa aiutare l’inchiesta, visto che siamo stati i primi ad individuar­e i gommoni. Se volete i motori occorre che le vostre autorità li chiedano alle nostre», spiega urlando dalla sua barca.

Youssef non spiccica una parola d’inglese o italiano. Aiuta questa volta avere il nostro traduttore a bordo. Ma il braccio di ferro continua. Youssef chiede allora «almeno un motore». E aggiunge, come ispirato da un’idea fulminante: «Anche noi libici dobbiamo svolgere un’inchiesta, queste barche vengono dalle nostre coste. Dunque un motore a voi e uno a noi. Tenetevi pure tutto il resto, due gommoni e benzina». Trascorron­o le ore. Fa caldo. Gli italiani si consultano a lungo con le radio. Viene contattato il comando di Taranto, che ribadisce l’ordine di sequestrar­e entrambi i motori come «prove importanti sulla scena di un possibile reato». Intanto sudano copiosamen­te nelle tute da sub d’ordinanza sotto il sole sempre più a picco. «Perché anche voi libici non chiedete istruzioni ai vostri capi?», suggerisco­no. Youssef è riluttante, non è ben chiaro cosa capisca dalla traduzione. Non gli è mai capitata una situazione del genere. «Ho sempre visto da lontano le navi italiane. Ma non ci siamo mai parlati direttamen­te. E mai ho chiamato i nostri comandi mentre ero in mare», ammette.

Alla fine, verso le dieci e trenta, miracolosa­mente viene raggiunto il suo capo a Misurata, che ordina di «lasciare tutto agli italiani». In pochi minuti la situazione si sblocca. Sleghiamo la cima che ci univa al gommone vuoto dei migranti. Gli italiani lo trascinano lentamente assieme all’altro verso la Aliseo. Il nostro rientro a Khoms è invece una folle corsa al limite del ribaltamen­to, tra schiuma e rimbalzi sul mare increspato dalla brezza del mezzogiorn­o, ma nel silenzio risentito dell’equipaggio.

 ??  ?? A bordo Aghil Usala, 22 anni, uno dei militari della Guardia costiera libica, appoggiato al kalashniko­v, chiede ai migranti di parlare in arabo (Foto di L. Cremonesi)
A bordo Aghil Usala, 22 anni, uno dei militari della Guardia costiera libica, appoggiato al kalashniko­v, chiede ai migranti di parlare in arabo (Foto di L. Cremonesi)
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