«Io lo conosco Ecco come difendersi»
Personalmente, ho uno strano primato. Sono stato uno dei pochi — non così pochi, penalmente — a ritrovarsi faccia a faccia con il «Turista picchiatore». Alla stazione Abbiategrasso, sono stato avvicinato da lui. Chiaramente, non sospettavo che si trattasse di «lui». Ero all’oscuro della storia, perciò non ho opposto resistenza. Mi ha domandato se sapessi come raggiungere Famagosta a piedi e ho detto la pura verità: «So andarci in metro». E mi sono allontanato, senza conseguenze. Sono stato uno dei rari — non l’unico — a cui non ha torto nemmeno un capello. Perché? Se qualcosa ho capito, credo sia giusto condividerlo. Prima regola. Agli inquirenti il «Turista» ha dichiarato: «Volevo vendicarmi». Di una violenza alla sorella, diceva. Altre volte: «Li picchiavo perché mi prendevano in giro». Cercando ora un senso a ciò che senso non ha, bisogna operare di psicologia spicciola. Il «Turista» — ma siamo a un grado sottozero di Freud — si sentiva accusato. Escluso, vessato. Gli psicotici, è un classico, sono convinti che il mondo si prenda gioco di loro, o che gli sia totalmente nemico. Ecco: quel giorno, io stavo peggio. Facevano quaranta gradi all’ombra, ero madido. Ero un romano catapultato a Milano, incapace di muoversi se non attraverso la banalità della metro. Lo ha percepito? Sì, credo. Secondo: il «Turista» aveva qualcosa da nascondere. Un recidivo, un fuggiasco: la Polizia già lo cercava. Io avevo altro da nascondere: la deiezione di un piccione. Me ne ero accorto poco prima. Un volatile aveva fatto i suoi bisogni proprio sul petto della mia camicia blu e, visto che ero appena stato ad un colloquio di lavoro, mi stavo ferocemente tormentando nel dubbio che l’immonda medaglia fosse già lì durante il colloquio. Quando il «Turista» mi aveva fermato, avevo perciò iniziato a rispondergli con la mano sul petto. Poteva sembrare che gli stessi giurando di dire nient’altro che la verità. Non servì. Lui annuì, mi guardò il petto, e mi disse: «You have... on your shirt». E non so dire, non so se fu questo. Certo ammisi: «Mi sto andando a cambiare». E si creò una tristezza nell’aria. Una pena. La pena che lui provava per me. Perché lui, certo, aveva un segreto. Ma il mio era più misero. «Non sai arrivare a Famagosta?». No. Cosa lessi? Imbarazzo, pietà. «Vai a cambiarti», rispose. Così l’incontro finì.