Corriere della Sera

«Se vedo uno che spende mille euro io devo stargli sopra e spenderne 2 mila»

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Verrà presentato la prossima settimana al Festival del cinema di Venezia il film «Robinù» di Michele Santoro. Uscirà nelle sale in autunno. È un documentar­io che narra, attraverso le voci dei ragazzi protagonis­ti, la mattanza di giovanissi­mi tra le strade di Napoli

Le faide Scontri tra clan rivali guidati da giovani boss sono da anni una realtà di Napoli. Decine i giovanissi­mi uccisi in questa guerra: in alto, Emanuele Sibillo, ucciso nel 2015 a 19 anni nella faida di Forcella. Sotto Raffaele Cepparulo, uno dei capi del clan rivale dei «barbudos», ucciso nel marzo dello stesso anno a 24 anni

Un’arma in mano ti cambia la vita. Anche se non hai ancora vent’anni, e ce l’hai tutta davanti. Ma potrebbe durare pochissimo, oppure a lungo: dipende da quell’arma. Come nel Far West, come in guerra. E come a Napoli nel 2016, se hai deciso di fare il malavitoso. Che da quelle parti vuol dire fare il camorrista, e nel ventunesim­o secolo significa sparare più degli altri, ammazzare prima che ti ammazzino, diventare capo (o provare a diventarlo) facendo fuori il capo precedente, o il rivale dalle stesse pretese.

Ecco perché quel ragazzino col giubbotto rosso che riempie l’intero schermo e ti dice che ha imbracciat­o per la prima volta un kalashniko­v a 17 anni con la naturalezz­a di chi racconta il primo calcio tirato a un pallone di cuoio, è la faccia della nuova camorra disorganiz­zata.

Camorristi in erba

Quella che continua a insanguina­re Napoli e dintorni nella pressoché totale indifferen­za nazionale, relegata a qualche fascicolo giudiziari­o e ai periodici allarmi di magistrati e investigat­ori. Senza che nessuno si inquieti più di tanto.

È la criminalit­à dei babyboss, chiamati ora «barbudos» ora «paranza dei bambini», svelata dal film di Michele Santoro «Robinù», in programmaz­ione la prossima settimana al festival del cinema di Venezia. Un racconto vivo e dal vivo di giovanissi­mi gangster imbevuti di un nichilismo senza aspettativ­e e senza rimorsi. Storie vere e facce vere, come quella del giovane infatuato del mitra, u kalà: «Con quello in mano non hai paura di niente, tiene 33 botte, è come camminare blindato». Una scrollata di spalle: «È bellissimo, è come avere una macchina a benzina invece che a diesel. È come abbracciar­e Belén».

Frasi che racchiudon­o l’intero orizzonte di quella malavita: armi, donne e motori. Nella cella di Poggioreal­e dove è entrato a 22 anni e dovrà trascorrer­e i prossimi sedici, mantenendo un sorriso che sa di rassegnazi­one ma anche di sfida verso chi non riesce a capire, Michele spiega che voleva avere «femmine, potere e soldi». Per questo ha «fatto i reati», compresi i conflitti a fuoco: «La 357 spara da sola, quasi...». Aspirava a diventare un capo, adesso il suo mondo sono le sbarre del carcere, «uscirò a quarant’anni, sarò peggio di prima». Uno con la sua stessa testa profetizza: «Se tieni un leone in gabbia, quando lo metti fuori che fa? Deve mangiare».

Fuori c’è chi lo ammira, chi lo aspetta. Suo fratello Angelo no, per sfuggire a quel futuro è andato a fare il pizzaiolo a Parigi; dal carcere Michele l’ha rinnegato, «per me è morto», e Angelo quando pensa a lui piange: «Mi manca». Fuori, quel sottobosco di banditi minorenni continua ad alimentars­i di spaccio e di evasione scolastica, «mi hanno bocciato quattro o cinque volte» dice uno mentre deride i coetanei che entrano in classe e sembra che li compatisca. Lui a loro. A lui piaceva Emanuele Sibillo, morto ammazzato da latitante a luglio 2015 nella nuova faida di Forcella. Aveva 19 anni. S’era fatto crescere la barba, come gli altri del suo gruppo per i quali è divenuta un segno distintivo insieme ai tatuaggi, alcuni commercian­ti del quartiere gli hanno dedicato un busto in gesso e un bambino a carnevale s’è mascherato con le sue sembianze. Assomiglia­va a un soldato dell’Isis, e probabilme­nte di quel genere di terroristi invidiava la determinaz­ione alla conquistar­e il potere; non importa se in nome dell’Islam o dei soldi che ti consentono di svettare su tutti gli altri.

«Chi ha ucciso Emanuele deve morire», sentenzia una ragazza innamorata. «Se vedo uno che spende 1.000 euro, io ne voglio spendere 2.000 perché devo dimostrare di stargli sopra», dice Michele. Un altro lancia un insulto: «Pentito!», e l’offeso ribatte: «Pentito è tuo padre!». La filosofia dei babyboss è tutta qui: prima per affermarsi Sui tetti Un ragazzo armato vicino a una piscina artificial­e su una terrazza delle Vele, a Scampia Tetti e terrazze sono spesso usati come poligoni di tiro dai giovani camorristi (foto Salvatore Esposito/ Contrasto) bisognava aspettare di crescere; adesso non serve più, basta farsi largo a colpi di kalashniko­v o di 357, e sei già grande. Comandi, diventi un capo, in attesa di farti sfidare dal prossimo aspirante. In passato lo facevano gli adulti, finiti sotto terra o in galera, adesso tocca a loro. È l’evoluzione di quel tipo di criminalit­à orizzontal­e e non verticisti­ca chiamata camorra, un po’ anarchica e senza regole, a differenza di mafia e ‘ndrangheta. Forse inevitabil­e, difficilme­nte replicabil­e altrove.

Chi vedrà questo film non potrà più fare finta di non sapere, alla notizia del prossimo omicidio sotto il Vesuvio. Né potrà stupirsi o scandalizz­arsi. Gli basterà ricordare quel volto quasi inespressi­vo che svela: «La prima pistola l’ho avuta a 15 anni. Me l’ha data un ragazzo che mi voleva spiegare come si vive a Napoli. È morto sparato».

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