SE L'IRLANDA DIFENDE IL SUO MODELLO FISCALE
Con una mossa tutt’altro che inattesa, il governo irlandese ha scelto ieri di impugnare la decisione della Commissione europea di recupero di 13 miliardi di imposte non versate da Apple. Un apparente paradosso: quella cifra equivale a quanto Dublino spende in un anno per il suo sistema sanitario nazionale, e dovrebbe far gola a un Paese fiaccato da anni di austerity e il cui salvataggio — come ha ricordato Federico Fubini sul Corriere del 31 agosto — è stato finanziato dagli altri membri dell’Ue. Eppure il pur fragile governo irlandese si è mosso all’unanimità, e il Parlamento, mercoledì, darà con ogni probabilità il suo via libera: esattamente come auspicava, con molta forza, l’ad di Apple, Tim Cook.
Il motivo è chiaro: da decenni l’Irlanda ha accettato un chiaro scambio (fiscale) che garantisce alle aziende meccanismi di riduzione della base imponibile e aliquote bassissime (corporate tax rate al 12,5%, total tax rate al 25,9, contro il 31,4 e il 64,8% italiani) e al Paese i vantaggi generati dall’essere la sede Ue più amata dalle multinazionali.
Uno scambio faustiano, secondo molti: Mario Monti, nel rapporto sul mercato unico del maggio 2010, notava come se da un lato in questo modo si accresce la propria attrattiva agli occhi di imprese e capitali, dall’altra si apre la strada a meccanismi di minimizzazione dell’imposizione al limite della liceità, e ci si espone a forme di ricatto sempre meno teoriche. Ma quello scambio, per Dublino, aveva finora significato occupazione, investimenti e prestigio: a un costo considerato ragionevole.
La Commissione ha però portato alla luce, per la prima volta, le crepe di quel calcolo. Per convincere 5 parlamentari «ribelli» a dire sì al ricorso, il premier Edna Kenny ha promesso una analisi su «quello che le multinazionali dovrebbero pagare, e quel che pagano
Motivazioni Dublino vuole continuare ad essere un paradiso per le multinazionali
effettivamente». Il timore, ha detto il ministro ai Trasporti Shane Ross, è che «vengano utilizzati vuoti normativi straordinari».
Forse a pesare è il timore di uno sfruttamento populistico dello iato tra aliquote fiscali, o la fatica di spiegare il no a 13 miliardi di euro.
Di certo il tema del ripensamento degli equilibri fiscali globali non sembra più eludibile: neppure per chi lo ha sempre ritenuto una minaccia alla propria sovranità, o al proprio interesse.