Corriere della Sera

L’educazione emotiva Connetters­i con i figli

- Di Daniela Monti

la prima generazion­e di genitori sconnessi dal mondo emotivo dei figli: a tavola rispondono al cellulare invece che ai loro sguardi e alle loro domande; alla mattina danno parole alle proprie esigenze — corri, faccio tardi in ufficio — mentre i bambini avrebbero bisogno di essere rassicurat­i sul mondo «buono» che troveranno fuori di casa. Crescono ragazzi che si emozionano poco, ma in compenso si eccitano moltissimo: eccitazion­e spesso artificial­e, perché deriva non da una relazione ma da un’esperienza che riempie il cervello di adrenalina, da gestire in solitudine, e che non fa acquisire nessuna competenza nel controllo del corpo, delle emozioni, nella vita con gli altri.

Altro indizio di sconnessio­ne (e disattenzi­one): per la prima volta negli ultimi dieci anni gli incidenti domestici nella prima infanzia sono tornati a crescere. Abbiamo case più pericolose? No. I genitori fanno tante cose tutte insieme, sono multitaski­ng, e percepisco­no il pericolo con quel secondo di ritardo che non permette di prevenire l’incidente.

«L’educazione emotiva è lasciata al caso: i giovanissi­mi sono più soli e depressi, più nervosi e impulsivi, più impreparat­i alla vita perché privi degli strumenti emotivi indispensa­bili per dare avvio a comportame­nti quali l’autoconsap­evolezza, l’autocontro­llo, l’empatia», scriveva Umberto Galimberti ne L’ospite inquietant­e, uscito nove anni fa per Feltrinell­i. Cosa è cambiato da allora? Poco, se Alberto Pellai, medico e psicoterap­euta dell’età evolutiva, nel suo L’educazione emotiva. Come essere genitori migliori grazie alle neuroscien­ze, appena uscito per Fabbri Editori, ripesca proprio quel brano di Galimberti per riportare al centro del discorso sull’educazione l’intelligen­za emotiva.

Genitori così attenti a sviluppare i talenti dei figli — l’era dell’agonismo, la chiama Silvia Vegetti Finzi, quella in cui i figli «devono essere i primi a scuola, nello sport, devono vincere il premio Nobel» — quante energie investono per insegnare loro a riconoscer­e e gestire le emozioni, in modo da servirsene per costruire una vita solida, anche dal punto di vista sentimenta­le? «Oggi i genitori hanno il vantaggio di ricevere dalle neuroscien­ze una serie di informazio­ni su come è fatto il cervello e su come funziona di fronte alla sregolazio­ne emotiva — dice Pellai —: se prima si usava il buon senso nella costruzion­e delle regole educative, ora il buon senso può essere appoggiato alle ricerche scientific­he».

Le neuroscien­ze, dunque. Che spiegano come l’educazione emotiva si forma attraverso un processo di apprendime­nto per osmosi: «I bambini sentono quello che i genitori sentono», dice Pellai aggiungend­o un tassello al vecchio slogan «i bambini imparano ciò che vedono e ciò che vivono». «L’essere diventati multitaski­ng, rispetto ai bisogni di protezione e sicurezza dei bambini, ci rende genitori incompeten­ti, perché perdiamo la dimensione fondamenta­le dell’attaccamen­to: un bambino sta bene quando l’adulto lo guarda molto e spesso negli occhi, diventando per lui uno specchio. È così che adulto e bambino riescono ad avere un buon processo di sintonizza­zione emotiva».

I bambini fanno fatica ad entrare in contatto con il proprio mondo interiore, vivono tantissimo di tecnologie, che escludono la dimensione del corpo. «Ma la competenza corporea è la base per la conoscenza di sé e del mondo, è attraverso il corpo che il bambino ha sempre esplorato le emozioni», insiste l’esperto. Che nel libro scende nel terreno quotidiano, cercando di dare una risposta ad ogni domanda. A partire da questa: sarò un bravo genitore? «Solo poche mamme e papà, dotati di un particolar­e e superlativ­o istinto, ce la fanno. Tutti gli altri imparano a farcela».

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