«Paradiso e inferno sono qui tra noi»
Monsignor Vincenzo Paglia anticipa i temi del suo nuovo libro «Sorella morte» (in uscita da Piemme il 6 settembre) che affronta uno dei temi più scandalosi dell’esistenza. «L’importante è non restare soli» I cristiani, la fede e le questioni ultime «da ri
Per Francesco d’Assisi, ormai alla fine dei suoi giorni, era la benvenuta, al punto da sentirla sorella. Sorella morte è il titolo che don Vincenzo Paglia ha deciso di dare al suo nuovo libro (Piemme), che affronta il tema più scandaloso della vita. «Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto», fa dire Shakespeare ad Amleto. In questa vicinanza e in questa condivisione è forse la ragione stessa del libro, nato prima dall’esperienza diretta e dalla conseguente riflessione con gli amici della Comunità di Sant’Egidio: «Ci siamo trovati per anni di fronte a situazioni liminari, con i malati di Aids quando la loro condanna era inevitabile, o con i tanti anziani accompagnati sino alla fine dei loro giorni. Abbiamo sentito il bisogno di affrontare il tema dell’eutanasia che appare una cesura violenta e problematica: di qui, via via, la discussione si è allargata non solo alle questioni che riguardano la legge e la medicina ma all’intero mistero della morte e della vita».
In genere, di fronte al morire si rimane senza parole: il suo libro sfida il tabù.
«In effetti, affrontando la questione della morte, si è come sbattuti di fronte a un mistero impenetrabile e che tuttavia ci coinvolge in maniera drammatica. E non si trovano parole. Il credente deve ripartire da Gesù. Sono le pagine centrali del libro che mi hanno permesso di dialogare con le diverse sensibilità, anche laiche, alla ricerca di parole che accomunino. È il tentativo di trasmettere un po’ di speranza, contro il rischio di banalizzare la vita e di occultare la morte. Oggi la morte è diventata la nuova pornografia. Deve essere nascosta e guai a “svelarla”. E invece è necessario, per dire, toglierle il burqa».
Il teologo Karl Barth ricorda che il buon cristiano dovrebbe avere sempre in una mano la Bibbia e nell’altra il giornale. È un invito a confrontarsi con il cambiamento…
«Sì, il giornale significa la storia. I credenti debbono confrontarsi con essa. La fede è per sua natura “sociale”: il Vangelo chiede ai cristiani l’impegno per trasformare la storia. Viviamo una singolare contraddizione: da una parte occultiamo la morte e dall’altra, rassegnati, ne mostriamo la violenza nei conflitti e nelle ingiustizie. Perché riguarda altri e non noi. La fede cristiana, e anche il buon umanesimo, non fa restare neutrali. La Bibbia, che è una storia di liberazione dal male e dalla morte, costringe i credenti a entrare nella storia per liberarla perché sia più giusta, più pacifica, più solidale».
Non le pare che spesso il mondo cattolico sia prigioniero delle dichiarazioni dottrinarie di principio e che fatichi a percepire il cambiamento?
«Certo, anche noi cristiani dobbiamo ripensare le questioni ultime: l’oltre dopo la morte, l’Inferno, il Paradiso, il giudizio, la salvezza. Dobbiamo ripensarle nel cuore della storia, e non come una cosa solo a venire. Nel Credo affermiamo di credere nella “vita eterna”, non semplicemente nell’“aldilà”. La fede va legata alla vita, all’oggi. Ad esempio, l’inferno inizia già da questa terra: la Siria, la Nigeria, i bambini che muoiono di fame, i naufraghi nel Mediterraneo, non stanno vivendo l’inferno? Anche il Paradiso inizia qui: ogni volta che facciamo un gesto d’amore... Mi ha colpito il racconto di suor Emanuelle, una donna che trascorse la sua vita nel quartiere dell’immondizie del Cairo: lei mette in parallelo la morte triste di Onassis, abbandonato in una clinica, e quella consolata di un povero raccoglitore di immondizia circondato dall’amore di chi gli voleva bene».
Come si può liberare dal male un mondo che conosce lo sterminio quotidiano, le tragedie del mondo, il naufragio di massa dei migranti nel Mediterraneo, la morte per fame dei bambini, la violenza cieca del terrorismo islamico?
«Il Signore della creazione è il nemico irriducibile del male e della morte: combatte l’una e l’altra e non sopporta che si abbattano sugli uomini. E chiama i credenti a combattere. Certo, appare una battaglia impossibile, ma la fede è anche lotta (agonia). San Paolo invita a sperare contro ogni speranza (una frase che piaceva molto anche a Pannella), e aggiunge che la speranza non delude. L’amore è la chiave della fede e della vittoria sulla morte, è l’arma contro lo sterminio quotidiano che continua proprio perché manca l’amore. Mentre crescono muri e diffidenze. La morte inizia il suo lavoro più distruttivo là dove non c’è l’amore e l’uomo resta solo».
È nell’idea di uomo come essere «relazionale» che si innestano i suoi dubbi sull’autodeterminazione?
«Certo. La libertà individuale, che resta una grande conquista, se è sciolta da qualsiasi vincolo ci getta nella fossa della solitudine con un illusorio delirio di onnipotenza. Guai a sentirci padroni assoluti della nostra vita, a sentirci come Dio. L’amico Giuseppe De Rita ha ragione nel parlare di “egolatria”, di un nuovo culto, quello dell’Io, sul cui altare sacrifichiamo tutto, noi stessi e gli altri, in ambito privato e in ambito pubblico. Pensiamo ad Aleppo. Sugli altari degli interessi individuali delle diverse parti si sacrificano bambini, donne, gente inerme con la sola colpa di stare ad Aleppo. In una cultura iperindividualista, l’interesse individuale prevale sempre su quello pubblico. Ma siamo tutti interdipendenti, persone e popoli. La dimensione della relazionalità va riconquistata.
Un capitolo del suo libro si intitola con un verso di John Donne: «Nessun uomo è un’isola».
«Rispetto alla autodeterminazione nel campo individuale, nel libro riporto la reazione di Luciana Castellina di fronte alla decisione di Lucio Magri di darsi la morte in una clinica. Mi ha colpito la sua riflessione. Lei, anche se favorevole alla legge sull’eutanasia, ha affermato di non riuscire a perdonarlo: “Vuol dire che i legami di amicizia non servono a fermarti e che il tuo dolore conta più del dolore che procuri”. Sento una grande preoccupazione di fronte all’aumento dei suicidi. È sempre una sconfitta. Di tutti».
È difficile rendere conto agli altri di ogni tuo gesto intimo. Come possiamo condannare il suicidio di Pavese o di Primo Levi o di tanti altri che hanno voluto andarsene per ragioni insondabili?
«La scelta suicida non è mai un valore. Sempre lascia inevasa una disperata domanda di amore, di senso, di un futuro diverso. È come voler passare a una vita migliore senza il ponte: si cerca con un salto — drammatico — di raggiungere l’altra sponda. Per questo guardo quel dolore con misericordia e persino con tenerezza. E mi interrogo: noi dove stavamo? E se mi viene chiesto, da sacerdote celebro sempre il funerale. A chi si è tolto la vita desidero offrire