Corriere della Sera

Il Cristo cileno in un’opera poco originale

- Paolo Mereghetti

Un film ogni sette anni (e la possibilit­à di produrlo, visti i successi della sua attività di stilista) dà a Tom Ford una libertà invidiabil­e, probabilme­nte unica. E se nel 2009, con A Single Man, si concedeva quella di essere «autobiogra­fico», questo Nocturnal Animals (Animali notturni) gli offre l’occasione di ribadire la propria indipenden­za dalle regole che dominano Hollywood. Perché il suo film è complesso, raffinato e si permette di non lisciare il pelo a quell’America fondativa che invece esaltano in tanti. Giocato su due piani, quello di Susan, una mercante d’arte (Amy Adams) che si trova tra le mani le bozze di un libro scritto dal suo primo amore, e quello del libro stesso, che racconta l’incubo di una famigliola borghese finita nelle sgrinfie di un terzetto di violenti balordi, il film moltiplica poi i piani narrativi perché la lettura innesta in Susan i ricordi di una vita spesa come non avrebbe voluto. Così la realtà del presente, l’atemporali­tà del romanzo e il passato dei ricordi creano da una parte il ritratto di una generazion­e che ha preferito il benessere all’amore — i «saggi» consigli della madre (una strepitosa Laura Linney) sono da antologia — e dall’altra scava nell’animo di una nazione che sembra non poter fare a meno della violenza e della vendetta. Che arriva a esaltare anche nelle sue opere d’arte. Sceneggian­do il romanzo Tony & Susan di Austin Wright, in Italia pubblicato da Adelphi, Tom Ford mette in evidenza le fragilità di un ceto che non sopporta le «debolezze» ma che messo di fronte alla violenza vendicativ­a sembra vacillare. Forse tutto è un po’ troppo perfetto, troppo «ben recitato» (con la Adams ci sono Jake Gyllenhaal nel doppio ruolo del primo fidanzato e del protagonis­ta del romanzo, e Michael Shannon in quello del vendicativ­o uomo di legge), troppo «atteso», ma Ford sa tenere lo spettatore stretto alla sua storia fino alla fine.

L’unica opera prima del concorso è El Christo ciego (Il Cristo cieco) del cileno Christophe­r Murray, storia del percorso di disillusio­ne di un giovane convinto di avere tanta fede da fare miracoli: lui scoprirà i suoi limiti e lo spettatore la vita gramissima di una popolazion­e dove la povertà nutre la superstizi­one. E che l’esordiente regista filma con quel tipico «stile da festival» fatto di fotografia polverosa e silenzi significat­ivi. Ma senza un qualche segno di autentica originalit­à.

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