Corriere della Sera

Jesse Hughes: dopo il Bataclan il nostro rock ha bisogno di sorrisi

Gli Eagles of Death Metal in tour. «La fede mi aiuta, prego in chiesa»

- DAL NOSTRO INVIATO Stefano Landi

L’uomo che ha suonato guardando in faccia la morte ha una sigaretta perenne tra le dita. Il fumo negli occhi. La barba (rossa) e le bretelle lunghe. Jesse Hughes è voce, cuore e anima dei california­ni Eagles of Death Metal. La band condannata dall’etichetta della storia ad essere la colonna sonora del Bataclan insanguina­to il 13 novembre da un commando di terroristi. Persero la vita 90 ragazzi che stavano ballando la loro musica. Morì anche Nick Alexander, che degli EoDM era il responsabi­le del merchandis­ing. Stava vendendo le magliette.

Nick è l’unico assente della famiglia della band che in questi giorni è finalmente sbarcata in Italia, superando la maledizion­e che prima aveva visto le date cancellate per gli attentati poi, a febbraio, causa la rottura del tendine di un dito di Hughes, altro forfait. Giovedì a Sestri, ieri a Cesena, stasera a Treviso. Intanto è cambiato tutto nella loro vita. C’è una guardia del corpo che segue ogni loro minimo spostament­o, ogni angolo di logistica di ogni evento. Un paradosso per una band che ha sempre azzerato le distanze tra palco e pubblico. «Ci segue gente speciale: l’altra sera una coppia di Brescia appena sposata è venuta in abito nuziale. Un concerto rock è una sfida: il gruppo spinge e il pubblico risponde. In Italia, quest’equilibrio è perfetto» racconta.

In un’ora di chiacchier­ata le parole che tornano come ritornello necessario sono famiglia e Dio. L’ultima cosa che ti aspetteres­ti da uno che è soprannomi­nato «il diavolo» e con la fama di essere un convinto sostenitor­e dell’arma nel taschino. Uno che divise il suo stesso pubblico quando qualche giorno dopo l’attentato di Parigi disse che le cose non sarebbero finite così se anche in Francia tutti avessero potuto avere una pistola. «Non mi interessa quello che pensano di me. Conta la mia fede cattolica: a Genova qualche giorno fa dopo le prove mi sono chiuso in una chiesa. Pregavo e una signora anziana e minuta si è avvicinata e mi ha stretto la mano» ricorda.

Ci sono altre passioni che lo legano all’Italia. «Giorgio Moroder: il mito di mia mamma discotecar­a. Il mio modello,

Il prossimo album sarà il più intenso della nostra carriera: non sono riusciti a fermarci Futuro

insieme a Little Richards». Hughes parla e sullo sfondo sfuma l’eco della notte al Bataclan. «Oggi sento ancora più forte il bisogno di scrivere storie forti. Le mie canzoni parleranno d’amore, della mia fidanzata, di mio figlio che ora ha 16 anni. Gli eventi mi hanno lasciato un bisogno sempre più forte di sorrisi». Tra crisi economiche e guerre il momento non è buono. «Ma la mia fede cristiana mi lascia pensare a un lieto fine: la storia è piena di momenti complicati: dopo il Medioevo c’è stato il Risorgimen­to. Dopo gli attentati alle Olimpiadi di Monaco è crollato il comunismo. Penso che torneranno momenti di gioia, anche se non di felicità assoluta».

A ottobre scorso è uscito «Zipper Down», il quarto album. Nei buchi del tour con cui stanno recuperand­o in Europa

le date cancellate dopo il Bataclan, nascono i brani del prossimo disco: «Sarà il nostro album più intenso, non sono riusciti a fermarci». L’aria da spaccone, ma gli occhi eternament­e lucidi. Non è colpa del fumo. Piange davvero. Ed è l’ultima cosa che ti aspetteres­ti da uno con un corpo che è un puzzle di tatuaggi: «Le lettere dei fan in questi mesi mi hanno salvato la vita».

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