OBAMA E LA SVOLTA CONDIVISA
Due anni fa, l’accordo UsaCina sull’ambiente, annunciato a sorpresa durante la visita di Barack Obama a Pechino, segnò un nuovo inizio delle politiche mondiali contro l’inquinamento e i mutamenti climatici e la rivincita del presidente americano, artefice di una paziente ricucitura dopo lo smacco di Copenaghen nel 2009: una conferenza fallita in buona parte proprio per le rigidità della Cina, nonostante tutti gli sforzi e l’energia spesa da un giovane presidente, appena arrivato alla Casa Bianca.
La ratifica dell’accordo di Parigi del dicembre scorso annunciata ieri da Xi Jinping e da Obama alla vigilia del G20 di Hangzhou apre la strada all’applicazione delle nuove politiche ambientali già entro la fine dell’anno. Per diventare operativo, quel patto deve essere ratificato da almeno 55 Paesi, responsabili di almeno il 55 per cento dei gas serra emessi al mondo. Usa e Cina, ora in linea con un’altra trentina di Paesi che hanno già ratificato il protocollo di Parigi, sono responsabili, da soli, del 39 per cento del global warming mondiale.
Il loro passo ha, quindi, un’importanza decisiva per cominciare a frenare l’aumento delle temperature, ma stavolta Obama e gli Stati Uniti non appaiono più come i protagonisti assoluti di questa svolta. Benché sia alla guida del Paese primatista mondiale dell’inquinamento, Xi Jinping è, infatti, riuscito a conquistarsi parecchio spazio sul palcoscenico della politica ambientale.
Ci è riuscito, Xi Jinping, un po’ perché questo è l’anno del G20 a guida cinese, un po’ perché Obama, al suo ultimo vertice planetario, sta ormai per uscire di scena, e molto per lo scarso impegno della politica e dell’opinione pubblica americana su questi temi.
In difficoltà in Medio Oriente, sul fronte Nato e nel confronto con la Russia di Putin, Obama avrebbe voluto concludere la sua presidenza con una forte affermazione delle altre due politiche sulle quali aveva puntato: ambiente e leadership americana nel Pacifico con rilancio della presenza Usa in Estremo Oriente: rafforzamento delle alleanze coi partner asiatici e contenimento dell’espansionismo cinese.
La freddezza del Congresso e dei due candidati presidenziali sull’ambiente, tema mai entrato con forza nella campagna elettorale, e l’ostilità di Donald Trump ma, sempre più, anche di Hillary Clinton, rispetto al Trattato transpacifico Ttp, hanno sottratto a Obama il ruolo di apripista, costringendolo a giocare di rimessa.
E, anche se l’accordo sull’ambiente ha una grande importanza in una prospettiva di lungo periodo, nell’immediato le urgenze di politica internazionale sono altre: per gli osservatori più maliziosi questa insistenza sull’ambiente potrebbe servire anche a mascherare l’assenza di intese o, almeno, di progressi, sulle altre questioni calde sul tappeto: l’espansionismo di Pechino nel Mar Cinese meridionale con la creazione di isole artificiali destinate a diventare basi militari e il brusco «stop» al libero scambio coi partner dell’area, dal Giappone alla Corea.
Un certo disagio lo ha fatto trapelare lo stesso Obama quando, siglata la ratifica insieme a Xi Jinping, ha detto che ora spera di poter approfondire con l’interlocutore cinese altre questioni essenziali come il rispetto dei diritti umani e le controversie marittime: cioè quell’espansionismo che tanto allarma i Paesi dell’area, dal Giappone alle Filippine, dalla Corea al Vietnam. E che Washington non è fin qui riuscita a frenare.
Il nervosismo e l’incertezza
Priorità Anche se l’accordo ha una grande importanza, nell’immediato le urgenze sono altre
degli alleati asiatici degli Usa, però, non riguarda solo l’attivismo militare della Cina ma anche il mutato stato d’animo dell’America sul free trade: cioè su quello che è stato fin qui il collante dei rapporti tra i Paesi delle due sponde del Pacifico.
Il malessere di questi partner è stato espresso qualche giorno fa con rara franchezza ed efficacia dal primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong, che proprio durante la sua visita alla Casa Bianca, ha ammonito: «Con l’intesa sul Ttp l’America ha messo in gioco la sua reputazione. Stiamo aspettando all’altare, ma se alla fine la sposa non si presenta, la cosa produrrà danni molto gravi. Non solo sul piano emotivo: danni materiali, di lungo periodo».
Obama, che pure ha concordato quelle nozze, non riesce a portare la sposa all’altare per l’ostilità del suo stesso partito, oltre a quella di Donald Trump. La Casa Bianca spera ancora di farcela con un colpo di reni in extremis (e l’appoggio dell’establishment repubblicano), ma la praticabilità di questo scenario appare sempre più dubbia.
Rimane l’accordo ambientale, certo: riuscire a contenere l’innalzamento delle temperature del Pianeta entro i 2 gradi centigradi è una cornice essenziale. Ma è, appunto, una cornice. Senza Ttp, avverte Ben Rhodes, il braccio destro di Obama per la politica estera, crescerà l’influenza della Cina negli scambi e anche nella fissazione delle regole del gioco.
Forse è troppo pessimista, ma lo smarrimento dei partner asiatici davanti a un’America che in questo momento appare loro senza bussola, è reale.