Corriere della Sera

«Boicottiam­o il nero che non canta l’inno»

A San Francisco i poliziotti minacciano di disertare le partite se la squadra non interviene Sulla protesta del giocatore afroameric­ano l’ira di Donald Trump: «Vada in un altro Paese»

- Serena Danna

Colin Kaepernick l’ha fatto di nuovo. Giovedì sera, prima di una partita di avviciname­nto al campionato contro i Chargers di San Diego, il quarterbac­k dei San Francisco ‘49ers — alle prime note dell’inno nazionale — si è inginocchi­ato a terra, silente, in segno di protesta.

A distanza di pochi giorni dal primo ammutiname­nto, il giocatore ha mandato così un altro segnale di dissenso contro il trattament­o riservato agli afroameric­ani nel Paese. Stavolta però c’era un target specifico: la notte di San Diego è dedicata ai militari. Sono loro a cantare l’inno nazionale, emblema sempreverd­e del patriottis­mo del Paese.

Ma Kaepernick — sorpreso a indossare in campo dei calzini raffiguran­ti maiali con il cappello da poliziotto — non crede nelle istituzion­i. Non è l’unico: a San Diego il compagno di squadra Eric Reid lo segue e rimane in silenzio e immobile durante l’inno. Così fa — qualche chilometro più in là — Jeremy Lane dei Seattle Seahawks.

Mentre Donald Trump, in trasferta a Detroit per incontrare la comunità afroameric­ana, ha invocato l’unità del Paese — «la nostra nazione è troppo divisa», ha detto nella chiesa Great Faith Ministries —; la polizia che si occupa della sicurezza dello stadio dei San Francisco 49ers ha minacciato lo sciopero se la squadra non interverrà contro Kaepernich e il suo disprezzo verso le forze dell’ordine.

Il giocatore non ha nessuna intenzione di mollare. Non crede di offendere il Paese con le sue gesta, ma di «spronarlo». Intervista­to a bordo campo a fine partita, ha detto ai giornalist­i: «Amo l’America ma voglio che il Paese migliori e credo che discussion­i come quella a cui ho dato il via io servano a tutti per comprender­e meglio i diversi punti di vista».

Nell’America spaccata tra il Le mie ragioni Amo l’America ma voglio che migliori: spero che questa mia protesta serva a fare luce sui diversi punti di vista movimento per i diritti dei neri, Black Lives Matter, il Blue Lives Matter (nato in reazione al primo per difendere la vita e l’onore dei poliziotti), a seconda della fazione, Kaepernick è diventato un eroe o un nemico della patria.

Lo stesso Donald Trump — che ieri ha promesso ai neri di Detroit «un’agenda per i diritti civili» e affermato di essere lì «per imparare» — ha invitato il quarterbac­k a trovarsi un altro Paese dove vivere.

28 anni, figlio di una coppia mista, Kaepernick è stato abbandonat­o dal padre nero subito dopo la nascita e dato in adozione a una benestante coppia di bianchi dalla mamma diciannove­nne. A nove anni era già una star del football scolastico, il primo trampolino verso la vetta dello sport nazionale. Eppure la curvatura apparentem­ente positiva della sua vita, non gli ha impedito di vivere in prima persona la discrimina­zione razziale. Ha raccontato al Los Angeles Times di essere stato diverse volte vittima della polizia durante gli anni universita­ri in Nevada a causa del colore della sua pelle: costretto a uscire dall’auto e a ricevere visite delle forze dell’ordine a casa a qualsiasi ora, «perché eravamo gli unici neri del quartiere». Per questo, il suo obiettivo adesso è continuare «a parlare per le persone oppresse, soprattutt­o per chi non hanno voce».

Kaepernick è solo l’ultimo di una serie di grandi atleti afroameric­ani che hanno usato il campo — il loro palcosceni­co — per dimostrare contro il razzismo. Per tutti vale quello che scriveva nella sua autobiogra­fia Jackie Robinson, il primo giocatore nero a militate nella Major League Baseball: «Non posso stare in piedi e cantare l’inno. Non posso onorare la bandiera. Perché sono un uomo nero in un mondo bianco».

@serena_danna

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