L’EUROPEISMO TRADIZIONALE CHE SCOPRE LE DISUGUAGLIANZE
Differenze A Cernobbio è cominciata ad emergere un’inedita riflessione sugli squilibri sociali che la globalizzazione ha generato
La disuguaglianza è atterrata a Cernobbio come il famoso marziano capitato a Roma. Nella seconda giornata del Forum Ambrosetti, quella tradizionalmente dedicata alla ricognizione sullo stato di salute dell’Europa, è cominciata ad emergere un’inedita riflessione sugli squilibri sociali che la globalizzazione ha generato o comunque acuito in questi ultimi anni. Si potrà obiettare che c’è voluta la fragorosa novità della Brexit perché tra gli eurocrati si facesse strada il dubbio ma non ha nessun senso recriminare sul passato. È meglio segnalare la discontinuità e caso mai sottolinearne — a fin di bene — i limiti. Il primo riguarda un’impostazione di base che porta a considerare il malessere sociale come un «rumore di fondo», che ha l’onore di entrare nell’agenda europea solo in virtù dell’aumento dei suoi decibel. Quasi non esistessero delle scienze che scandagliano la società e cercano di evidenziarne le leggi che la muovono, o almeno le costanti. Eppure basterebbe rammentare a memoria che almeno un paio degli ultimi Nobel per l’economia devono il riconoscimento o stanno caratterizzando i proprio studi sulla disuguaglianza.
Va comunque riconosciuto al ministro Pier Carlo Padoan di essere stato il primo in questa tornata di Cernobbio a evidenziare il legame tra non-crescita e disparità. Ieri poi sono stati, a sorpresa, due olandesi a far proprio l’input. Il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, che ha accennato al «numero crescente di cittadini che vogliono riprendere il controllo del proprio destino in un mondo che si globalizza e cambia con rapidità» e il suo connazionale Jeroen Dijsselbloem, che ha stigmatizzato quella che gli esperti chiamano «trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza» ovvero, per dirla con le sue parole, «gli studenti di talento che non avranno le stesse chance di successo dei propri coetanei per le condizioni di partenza dovute alla condizione svantaggiata della propria famiglia». È toccato, infine, all’economista francese Philippe Aghion evocare il delicato tasto della mobilità sociale che una volta c’era e adesso non più. Tutto qui? Se vogliamo essere rigorosi le euro-personalità che ieri hanno preso la parola al Forum avrebbero potuto fare molto di più, avrebbero dovuto avere almeno il coraggio dell’Economist che dopo la Brexit ha pubblicato una serrata autocritica dei propri errori e della sottovalutazione dell’impatto sociale della globalizzazione. Cernobbio non l’ha fatto ma non mancheranno le occasioni.
La verità è che l’europeismo tradizionale non ha mai coltivato una propria teoria della società, considerata per lo più come una costellazione di lobby. Ha sempre te- muto che le ansie dei ceti medi e delle working class si tramutassero in ostacoli elettorali al processo di integrazione e modernizzazione. Quest’impostazione è andata avanti negli anni e non ha saputo registrare la novità della globalizzazione e i conseguenti slittamenti di orientamento della società occidentali. Cosicché anche quando oggi Cernobbio generosamente si gira verso il lato dei «perdenti della mondializzazione» non sa analizzare né catalogare le nuove domande che vengono dal basso. Tutt’al più potrà accadere che qualcuno tiri fuori una slide con l’immarcescibile indice di Gini che misura le differenze di retribuzione.
Invece la globalizzazione ha in qualche modo segmentato la stessa disuguaglianza portando in superficie fenomeni
Richiamo È utile rammentare alle élite l’urgenza di aggiornare la conoscenza del paesaggio sociale
diversi anche da Paese a Paese. Hanno votato contro l’Europa gli operai delle fabbriche automobilistiche di Sunderland che vedono come il fumo negli occhi i londinesi considerati dei winners, in Italia invece lo zoccolo duro è rappresentato dall’apartheid del mercato del lavoro che ci assegna percentuali mostruose di disoccupazione giovanile e di Neet (e che in qualche modo ha favorito le fortune elettorali dei Cinque Stelle). Ma esiste anche un fenomeno che sa di Ottocento come quello dei bambini a rischio povertà: 27 milioni in Europa secondo Save the Children. Infine anche le speranze di riavviare l’ascensore sociale cozzano con le ristrutturazioni delle multinazionali e delle grandi imprese che per diventare snelle stanno tagliando i piani alti, le posizioni manageriali di valore e prestigio. La sensazione di vivere dentro un frullatore di conseguenza cresce e quindi è utile rammentare alle élite l’urgenza di aggiornare la propria conoscenza del paesaggio sociale. È il presupposto per potersi cimentarsi sulle contromisure.