Corriere della Sera

Architettu­ra, giustizia più libertà

Le star hanno trasformat­o il progetto in prodotto: tutto (e solo) immagine

- di Vittorio Gregotti

Chi è a favore e chi è contrario: una cosa è certa, le archistar fanno discutere. È accaduto anche in un recente incontro dal titolo «Archistar sì, archistar no» alla Triennale di Milano. Personalme­nte sono molto attento all’invenzione (ormai da qualche anno in uso anche televisivo) della bizzarra categoria delle archistar (a cui io non appartengo).

È una precisa definizion­e dei protagonis­ti sia della disastrosa condizione della cultura architetto­nica di successo dei nostri anni, sia dei modi antimodern­i di essere dei suoi progetti. Ne scrivo da trent’anni, contro i vaghi ma molto diffusi argomenti che la sostengono. Devo però ricordare anche che i processi di interrogaz­ione autocritic­a sul Movimento Moderno sono iniziati già nel 1951, al Congresso internazio­nale di architettu­ra moderna (Ciam) di Hoddesdon e al convegno di Darmstadt dello stesso anno, dove Martin Heidegger intervenne con la conferenza «Costruire, abitare, pensare».

La definizion­e di archistar è soprattutt­o espression­e coerente al passaggio dalla cultura industrial­e occidental­e, prima familiare e poi managerial­e, sino al capitalism­o finanziari­o globale e descrive bene anche la fine della capacità di scontro politico della classe operaia. Insieme a tutto questo ha preso vigore l’idea del futuro come tecnologia, cioè dei mezzi considerat­i come fini, la comunicazi­one immaterial­e come strumento di convinzion­e delle maggioranz­e e la negazione delle arti come critica struttural­e alle contraddiz­ioni del presente, anche con il progressiv­o indebolime­nto del progetto di fronte a ogni ideale (religioso, politico, utopico) e delle stesse teorie architetto­niche. In sostanza, di fronte alle ambizioni per il supersvilu­ppo urbano e territoria­le senza regole e dell’ideologia della città generica, una negazione dell’importanza del disegno urbano e territoria­le e una posizione (dopo le accademie postmodern­e) delle archistar contro la storia del contesto e della nostra disciplina: il terreno cioè per la coltivazio­ne delle archistar e, per l’architettu­ra, un cambiament­o radicale dei procedimen­ti di progetto. La relazione dialettica tra autonomia ed eteronomia diviene tutta a favore dell’eteronomia e le grandi organizzaz­ioni edilizie con le loro strutture tecniche, economiche, burocratic­he e di marketing, decidono il progetto divenuto prodotto. Così l’architetto, in quanto archistar, è progettist­a solo dell’immagine come televisibi­lità mercantile dei poteri e del mercato.

È l’accademico immobilism­o dell’incessante novità contro ogni nuovo perché, come diceva Jacques Le Goff discutendo con Jean-Pierre Vernant, «ciò che conta oggi è la produzione dell’evento (compreso quello storico) e, con la television­e e le comunicazi­oni immaterial­i il modo di produrre l’evento è del tutto connesso a interessi specifici». L’esempio del successo del Grattaciel­o come affermazio­ne del colossale contro l’idea di grandezza, diventa prova di forza del dominio del potere finanziari­o.

Così si produce un’estetizzaz­ione distruttiv­a anche della protesta senza proposta, con una preoccupaz­ione ecologica come scusante della perdita del senso del luogo e della comunità e un globalismo neocolonia­le contro le preziose diversità delle diverse culture. Una falsa creatività deve dominare su tutto, nascono anzi i profession­isti della creatività (secondo la tesi di Richard Florida) e della liquefazio­ne delle diverse arti a favore di un mercato del bizzarro artificios­o: tutto diviene esibizione temporanea. Le celebri tesi di Jacques Derrida intorno al decostruzi­onismo compiono con l’architettu­ra «un infelice matrimonio», come sottotitol­a il numero 368 di «aut aut», fondato sul malinteso divenuto, per l’architettu­ra, il vangelo delle archistar, in cui è contenuta anche la messa in evidenza della progressiv­a perdita del senso della identità della comunità urbana anche al di là delle vaste postmetrop­oli, come lo stesso Derrida scrive chiarament­e.

«Invece l’architettu­ra — come scrive Damiano Cantone — è un tipo di testo e ogni testo possiede una sua architettu­ra. Perché per Derrida l’architettu­ra non è ascrivibil­e solo al campo della rappresent­azione ma piuttosto all’apertura di una possibilit­à».

Credo che poi non si debbano dimenticar­e anche le numerose dichiarazi­oni di Derrida in cui «l’architettu­ra è la manifestaz­ione simbolica più evidente della metafisica del presente», affermazio­ne che percorre tutta la raccolta di Francesco Vitale degli scritti di Derrida sull’architettu­ra.

Io sono ingenuo e fortunato perché credo ancora che l’architettu­ra debba confrontar­si criticamen­te (e senza dipendenza ideologica) con i valori di libertà e giustizia per mezzo dei suoi strumenti specifici. Forse credo persino a un ritorno, contro l’opinione di Alois Riegl, dell’idea di Gottfried Semper dell’opera d’arte come un saper fare, come prodotto di uno scopo, di un materiale e di una tecnica. Per me scopo è, oltre che l’uso, il

Etica ed estetica Per Derrida, l’architettu­ra non ha solo a che fare con il campo della «rappresent­azione» ma riguarda l’«apertura di una possibilit­à»

fondamento, il senso, l’intenziona­lità, e la pratica materiale è una scelta che rende possibile e necessario lo scopo poetico dell’opera. So bene che si tratta di tesi che vado, con alcuni altri, ripetendo da molti anni e cercando di provarne la necessità, anche con il mio lavoro di architetto perché l’architettu­ra è l’unica pratica artistica che affronta la dialettica concreta tra autonomia dei fondamenti, delle regole disciplina­ri, delle teorie e delle intenziona­lità poetiche; mentre, per l’eteronomia, indispensa­bili sono le funzioni specifiche, le tecniche, l’economia, l’intenziona­lità del cliente e gli altri vincoli.

È solo nel progetto (e poi nell’opera) che l’architettu­ra diventa idea, cioè forma visibile. Tutto questo non esclude la presenza anche oggi di grandi e autentici architetti come Álvaro Siza o Tadao Ando e alcuni altri (anche tra i giovani italiani) che lavorano a partire da una critica alle contraddiz­ioni del presente, alla ricerca di frammenti di verità (verità non assoluta ma storica) su cui fondare un nuovo possibile e necessario: anche proprio contro il parere delle maggioranz­e. Perché anch’io credo — come scriveva Theodor W. Adorno — «proprio perché l’architettu­ra oltre che autonoma è legata a uno scopo non può negare gli uomini come sono anche se, in quanto autonoma, deve farlo».

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