Sartre a Roma: «Per l’Italia l’unica salvezza è il turismo»
Curiosa, inquietante, a momenti profetica (per pessimismo) l’immagine che JeanPaul Sartre, nell’ormai lontanissimo 1951, dava della Capitale. Nemmeno una parola su scrittori (un incontro con Carlo Levi costituisce un fuori testo) e registi, nonostante stessero dando vita a una stagione di bestseller e successi internazionali. L’uomo-réclame dell’intelligenza laica, che alloggiava in un albergo di preti, va appena sveglio in cerca di colore locale. Non sembra nemmeno parente del Sartre che qualche anno dopo, con Simone de Beauvoir in abitini lindi e stirati, sedeva all’ombra delle meraviglie barocche fumando gitanes papier mais e succhiando cappuccini.
Coerentemente con quella che voleva essere una fervida vacanza di studio, non un viaggio in Italia sulla scorta di esempi cosi illustri da far tremare le vene ai polsi, alle 8.30 Sartre era già in piazza della Rotonda. Su un foglio di fortuna prendeva appunti sfogando la sua riprovazione nel vedere dei marinai americani esprimere una troppo giocosa vitalità sotto il porticato del Pantheon. Un’altra volta, ancora su un foglio di fortuna (perché non ha pensato di comperarsi un bloc-notes?) risponde con impazienza alla «Fiera Letteraria», vetusto periodico romano, perché colpevole di avere scritto: «Salvare la cultura. (Ecco) il problema n.1 per il pensatore contemporaneo». Sbotta Sartre «la cultura non si salva, si fa». E aggiunge: «Il problema n.1 per gli italiani è la salvezza dell’industria nazionale. Il turismo». Il difficile però «è vendere il passato in cambio di dollari, a persone che del passato se ne infischiano» e siamo all’alba dei rispettosi, timorosi anni Cinquanta.
Basti questo poco a suggerire il clima d’un libro senza dubbio anomalo nella produzione sartriana, un postumo messo insieme da Arlette Elkaim, figlia del defunto Jean-Paul, e adesso edito in Italia con il titolo La regina Albemarle (traduzione di Sergio Atzeni, il Saggiatore, pp. 189, 21). Fanno corona alle pagine sulla Capitale un «visionario» flash napoletano, un interludio caprese e un lungo capitolo, quasi una dichiarazione d’amore per Venezia. Con luci, cieli e maestri della pittura. Una raccolta di scampoli, dunque, da leggere senza mai dimenticare però che Sartre è l’autore della Nausea e dalla sua testa sono usciti epocali saggi di letteratura. Il filosofo e il «suo» esistenzialismo in formato parigino sono da lasciare ai professori.