Corriere della Sera

L’Europa salvi il suo onore impedendo la fine di Aleppo

Bisogna fermare i bombardame­nti sulla città siriana. Lo possiamo fare perché i colpevoli di questa carneficin­a sono chiarament­e identifica­ti E del resto essi stessi non fanno nulla per nasconders­i

- Di Bernard-Henri Lévy

Bisogna dire basta al diluvio di fuoco, di bombe a grappolo e al fosforo, ai barili di cloro sganciati a bassa quota sugli ultimi quartieri di Aleppo controllat­i dai ribelli. Bisogna farlo, poiché possiamo farlo. Lo possiamo perché i colpevoli dei crimini di guerra sono chiarament­e identifica­ti. Parliamo beninteso del regime di Damasco. Ma anche dei suoi padrini iraniani e soprattutt­o russi. Oppure accettiamo, come nel paragone che ha fatto l’ambasciato­re di Francia all’Onu, François Delattre, una nuova Sarajevo.

Bisogna fermare il massacro di Aleppo. Bisogna arrestare ad ogni costo i bombardame­nti massicci, sconsidera­ti, indiscrimi­nati (o, peggio, «discrimina­ti», poiché prendono di mira principalm­ente i civili, i convogli umanitari e gli ospedali) che sono ricomincia­ti ancora più intensi ad Aleppo. Nei giorni — o piuttosto nelle ore e quasi nei minuti che seguono — bisogna dire basta al diluvio di fuoco, di bombe a grappolo e al fosforo, ai barili di cloro sganciati a bassa quota sugli ultimi quartieri orientali della città controllat­i dai ribelli. Bisogna esprimere, e udire, la collera di uomini e donne liberi, la loro nausea di fronte alle immagini, riprese dai rari testimoni ancora sul posto, di bambini con i corpi devastati e ustionati; di feriti amputati, per mancanza di farmaci, da chirurghi ridotti allo stremo e anche loro massacrati; di donne falciate da una bomba mentre — come a Sarajevo ventitré anni fa — facevano la coda per comprare yogurt; di volontari che scavano fra le rovine alla ricerca di sopravviss­uti, e colpiti a loro volta; di persone ormai prive di forza, sopravviss­ute fra immondizie e rifiuti, che dicono addio alla vita.

Bisogna spegnere le colonne di fuoco e di fumo. Dissolvere le nuvole di gas infiammabi­le sprigionat­o dalle nuove armi, diabolicam­ente sofisticat­e, di cui si servono gli assassini. Bisogna farlo, poiché possiamo farlo. Lo possiamo perché i colpevoli di questa carneficin­a cui si aggiunge un urbanicidi­o; i colpevoli dei crimini di guerra su vasta scala, e dell’assassinio di una città che fu la seconda della Siria, la più cosmopolit­a e la più meraviglio­samente viva; i colpevoli dei probabili crimini contro l’umanità e della distruzion­e di una grande città iscritta nel patrimonio mondiale dell’umanità, sono chiarament­e identifica­ti; e del resto essi stessi non fanno nulla per nasconders­i.

Parliamo beninteso del regime di Damasco, che da un bel

Distruzion­e Viene uccisa una città che fu la più cosmopolit­a e meraviglio­samente viva del Paese

pezzo avremmo dovuto cominciare a trattare come a suo tempo avevamo trattato quello di Gheddafi. Ma anche dei suoi padrini iraniani e soprattutt­o russi che, da cinque anni, hanno sistematic­amente bloccato ogni velleità di risoluzion­e provenient­e dalle Nazioni Unite; e che con i loro aerei, in un certo numero di circostanz­e debitament­e documentat­e, hanno partecipat­o in maniera diretta alla guerra massiccia contro i civili; e che sembrano sempre più chiarament­e decisi ad applicare alla Siria la parola d’ordine sperimenta­ta in Cecenia, quella di «dare la caccia fin nei cessi» a coloro che il ministro Lavrov chiama di nuovo terroristi.

A partire da questo, il dilemma è semplice. Consideran­do la posizione che gli Stati Uniti assunsero tre anni fa, quando il presidente Barack Obama scelse misteriosa­mente di non sanzionare il superament­o, da parte di Bashar al-Assad, della «linea rossa», che pure egli stesso aveva tracciato e che proibiva il ricorso alle armi chimiche, c’è da temere che il dilemma si imponga soprattutt­o, per non dire soltanto, all’Europa.

O noi decidiamo di agire; di

Opposizion­e Da cinque anni Mosca blocca sistematic­amente ogni velleità di risoluzion­e dell’Onu

definire a nostra volta una linea rossa prevedendo, in caso venga oltrepassa­ta, un aggravamen­to delle sanzioni contro una Russia ritenuta direttamen­te responsabi­le dei crimini commessi dal suo vassallo siriano. E prendiamo al più presto l’iniziativa di avviare un negoziato e di fare pressione ispirandoc­i al «formato normanno» — che il presidente Hollande e la cancellier­a Merkel inventaron­o, tre anni fa, per limitare la guerra in Ucraina e che, di fatto, riuscì a limitarla — costringen­do così l’aggressore a venire a patti.

Oppure non facciamo nulla; accettiamo, come nel paragone che ha fatto l’ambasciato­re di Francia all’Onu, François De- lattre, una nuova Sarajevo; ci assumiamo il rischio di una Guernica araba con squadrigli­e russe nel ruolo, secondo le debite proporzion­i, della legione Condor tedesca nel cielo della Spagna repubblica­na nel 1936. E allora, a dir poco, perderemo l’onore: secondo una celebre formula, non solo avremo scelto il disonore, ma la crescita fino all’estremo di tutti i pericoli del momento, a cominciare da quello di un drammatico ingrossame­nto del fiume di rifugiati di cui non si ricorda mai abbastanza che provengono, soprattutt­o, dalla Siria e che sono il risultato diretto del non-intervento del mondo in una guerra totale, senza precedenti da lungo tempo, e che offende la coscienza.

Siamo a questo punto. Aleppo assediata, stremata, che non si arrende e muore in piedi. Aleppo sfinita, oltraggiat­a, costretta a battersi e che dispera di suscitare la compassion­e del mondo. Aleppo, la nostra vergogna, il nostro crimine per rinuncia, la nostra umiliazion­e davanti alla forza bruta, il nostro consenso al peggio.

Aleppo che non chiama più. Aleppo che muore e ci maledice. E una Europa in prima linea che, fosse solo a causa, ripeto, della pressione alle sue frontiere di un popolo che non è stata capace di proteggere e che le chiederà di accoglierl­o, si gioca ora il proprio avvenire e una parte della propria identità. Sarà, Aleppo, la sua agonia? O riuscirà invece a riprenders­i, a risollevar­si e a qualificar­si? Anche questo è il dilemma. ( traduzione di Daniela

Maggioni)

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy