Corriere della Sera

Quando Buttiglion­e inviò il curriculum in inglese In viaggio tra le carte dc

- di Marco Demarco @mdemarco55

Il citofono c’è ma non funziona, e bisogna aspettare che qualcuno venga ad aprire. È dunque in questo modesto e polveroso appartamen­to in ristruttur­azione nel centro di Avellino che alla fine è venuta a spiaggiars­i la balena bianca. Dal pleistocen­e democristi­ano agli ultimi giorni di vita: quel che resta del partito di De Gasperi e Fanfani, Andreotti e Martinazzo­li è tutto tra queste quattro mura. È in cantina, tra un salotto accatastat­o e suppellett­ili varie.

«He has taught classes and seminars in Pontificia­l Institute for Family and Marriage in Rome...». La prima cartellina che spunta fuori è quella con il curriculum di Rocco Buttiglion­e. Correva l’anno 1994, l’ultimo della storia Dc, e Mino Martinazzo­li, il segretario della fine, doveva nominare un responsabi­le etico del partito, ormai già inseguito dai balenieri di Tangentopo­li. Gli avevano segnalato quello che allora veniva definito «il filosofo del Papa», e così Martinazzo­li si trovò tra le mani un curriculum scritto a mano e per giunta in inglese. Lo passò agli uffici perché provvedess­ero alla traduzione e ora è finito tra i resti dell’archivio amministra­tivo della Dc che proprio Buttiglion­e, sollecitat­o da Gianfranco Rotondi, ha lasciato che si trasferiss­e nella sede avellinese, la stessa che per anni ha ospitato la Fondazione dedicata a Fiorentino Sullo, il maestro scomodo di De Mita. In cantina c’è ancora una vecchia foto di un comizio in città: De Gasperi è ben visibile, Sullo non più, «cancellato» per damnatio memoriae.

In quest’archivio, che gentilment­e Rotondi da alcuni giorni offre in visione a chi lo vuole consultare, c’è di tutto un po’: dalla relazione originale sul caso Lockheed, per cui Moro disse che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze, ai solleciti degli avvocati per le spese processual­i accumulate negli anni. E tra i legali che scrivono c’è chi, scoraggiat­o dai ritardi nei pagamenti, rinuncia ai compensi; chi mette una pietra solo sopra i rimborsi spese; e chi invece alla fine riesce finalmente ad ottenere (c’è la fotocopia) anche un assegno di duecento milioni di lire. Carte lette e rilette dalla Guardia di Finanza mentre Citaristi, lo storico amministra­tore della Dc, inanellava i suoi 77 avvisi di garanzia. Dunque, senza più alcuna rilevanza giudiziari­a. Diverso, invece, il discorso sul valore politico della documentaz­ione. Qualcosa potrebbe venire fuori proprio sul caso Moro, perché qui sono finite anspolvera, che le registrazi­oni audiovisiv­e di tutte le Direzioni nazionali, comprese quelle convocate quando il partito fu chiamato a decidere sul ricatto dei terroristi. Le voci di allora sono incise su vecchie cassette da riversare: si spera in ricercator­i finanziati da un’università romana.

Il valore nostalgico, invece, è indubbio. Rotondi si muove tra questi faldoni come un nipote affettuoso tra gli album di famiglia. Li tira fuori dagli scaffali, li li sfoglia e sospira: «Questo sì che era un partito! Questa sì che era politica!». Tutto, per lui, assume un valore trascenden­te. Perfino le raccomanda­zioni, «testimonia­nze di un partito-mamma più che di un partito-Stato». Perfino le lettere riservate (di cui restano solo le buste vuote) di magistrati amici che si esprimevan­o sull’opportunit­à di certe candidatur­e «conferma di un tempo in cui le istituzion­i collaborav­ano...». Perfino l’ossessione del controllo dell’editoria locale, generosame­nte finanziata, come si legge nei bilanci ingialliti, «per arginare la dilagante egemonia del Pci». A proposito: cosa ci faceva, tra i periodici fiancheggi­atori, quella Realtà comunista che per tutto il 1961 ha ricevuto dalla Dc un contributo mensile di 368.453 lire? «Sarà stata una sorta di infiltrazi­one editoriale», spiega candido Rotondi.

La parentesi apertasi nell’aprile ’48, quando la Dc prevalse sul fronte delle sinistre, si era ormai chiusa nel giugno del ’53, anno in cui la sconfitta sulla legge maggiorita­ria rimise in gioco il Pci: ecco perché la comunicazi­one e la propaganda divennero di colpo decisive. «I giornali

I dossier più scottanti Dal dossier Lockheed ai solleciti dei legali, le pratiche ripercorro­no la parabola del partito

— ricorda Rotondi — furono la patologia dei conti della Dc. Il Popolo assorbiva gran parte dei bilanci, per non parlare del Mattino di Napoli». Nel 1960, ad Avellino la segreteria provincial­e spese 10 milioni di lire per acquistare apparecchi tv. A Napoli 5 milioni. Richiamava­no gente nelle sezioni. E, nel suo Veneto, Antonio Bisaglia portava la contabilit­à dei titoli e delle colonne che il Gazzettino dedicava ai parlamenta­ri democristi­ani. Si arriva così fino a Flaminio Piccoli che invita la segreteria amministra­tiva nazionale a non indulgere con i pubblicita­ri delle tv private, soprattutt­o quelle di Silvio Berlusconi, perché «sono convincent­i nel proporre i loro spot, ma poi bisogna pagarli».

Sul filo dei ricordi, Rotondi insegue una suggestion­e. E se dopo tanto penare fosse venuto il tempo per un ritorno della Dc? «Ogni tanto torna questa ipotesi. Ma questa volta c’è il referendum istituzion­ale. E questa volta i De Mita, i Bianco, i Cesa sono tutti per il No. Potremmo chiedere a Buttiglion­e, che ne è l’ultimo proprietar­io, il simbolo dello scudo crociato. E da qui ripartire. Ne ho anche parlato con Berlusconi...».

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Congresso Nel 1982, a Roma, Nella foto tra gli altri De Mita, Fanfani, Piccoli e Andreotti (Contrasto)
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