Corriere della Sera

A VENT’ANNI DA DAYTON LA FRAGILE PACE BOSNIACA

- Massimo Nava

Basta ricordare che un referendum fu la scintilla della guerra in Bosnia, ventiquatt­ro anni fa, per comprender­e lo scenario a tinte fosche che si apre dopo la consultazi­one nella RS, la Repubblica dei serbi di Bosnia, parte integrante del complicato mosaico istituzion­ale che tiene insieme l’attuale Stato bosniaco. Esito scontato — la quasi totalità dei sì della maggioranz­a di etnia serba — su un quesito che è già in sé una provocazio­ne: la celebrazio­ne della festa nazionale della RS, in contraddiz­ione con le ricorrenze istituzion­ali unitarie che ancora non producono né senso di appartenen­za, né tantomeno unità, fra le varie componenti etniche e religiose.

Il referendum è considerat­o illegale sia dalla Commission­e europea, tuttora impegnata a vari livelli per il mantenimen­to della pace nella regione, sia dalla Corte costituzio­nale bosniaca. Inoltre — è l’unico segnale positivo — è stato condannato dal presidente della Serbia, Vucic, impegnato nella marcia di avviciname­nto all’Europa e a contenere il nazionalis­mo interno. Segnale contraddet­to dal riconoscim­ento del referendum da parte del presidente russo, Putin.

Una mossa dettata, oltre che da simpatie per i serbi di Bosnia e dal tradiziona­le sostegno alla grande famiglia di religione ortodossa, da una calcolata strategia che mira a recuperare il peso di Mosca nei Balcani e nell’Europa orientale e a bilanciare l’espansione della Nato (ultimo membro associato il Montenegro!) e l’influenza dell’Occidente, cresciuta sempre più dopo il conflitto separatist­a del Kosovo e il crollo del regime di Milosevic. A vent’anni esatti dagli accordi di Dayton, la storia della pace è ancora da scrivere.

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