La morte del campione Polemica sul circuito
L’incidente in Germania. La Federazione: colpa delle loro regole pericolosissime
Non è stato il destino. L’incidente che ha causato la morte di Massimo Joe Rossi, italiano di 23 anni, campione mondiale di motonautica, è già al centro delle polemiche. Stava gareggiando, in Germania, sul fiume Mosella. Un circuito contestato per la sua pericolosità.
La voglia di vincere, la rincorsa all’avversario in fuga dopo una virata, questione di riflessi, metri e di «manico». La barca che insegue prende la scia, si «scompone» secondo il gergo nautico, decolla in aria e viene sbalzata fuori dalle acque centrando un albero. Inutili i soccorsi, così è morto giovanissimo nelle acque del fiume Mosella, in Germania, il campione mondiale di motonautica Massimo Joe Rossi. Una tragedia assurda ed evitabile in una gara valida per il campionato tedesco nella classe 350 su un circuito al centro di polemiche da anni per la sua pericolosità. Che la motonautica «inshore» — da non confondere con l’offshore in cui hanno perso la vita l’ex pilota di Formula 1 Didier Pironi e Stefano Casiraghi, marito di Carolina di Monaco — sia uno sport rischioso è risaputo, ma Traben Trabach è descritto come un incubo da chi ci ha corso, paragonabile, con le dovute proporzioni, a quello che ha rappresentato il Nürburgring per la F1 (tappa cancellata dopo l’incidente che quarant’anni fa sfigurò Niki Lauda) e il Tourist Trophy per le moto (abolito dopo decine di morti): ogni manovra avviene al limite, basta un errore o un imprevisto e le conseguenze possono essere fatali. Sopratutto quando si guida sdraiati a pancia in giù su imbarcazioni capaci di raggiungere i 180 km/ h. Tanti piloti durante le riunioni pre-gara hanno sottolineato come la prova sulla Mosella vada eliminata, ma nessuno li ha mai ascoltati.
«In Italia Rossi quasi certamente si sarebbe salvato — tuona Vincenzo Iaconianni, presidente della Federmotonautica —: da noi le regole sulla sicurezza sono molto più severe e sarebbe impossibile organizzare una cosa del genere». Sì, perché se il limite della «pista» tedesca fosse stato più ampio, il giovane talento italiano
sarebbe atterrato in acqua: «Rispetto ai requisiti minimi di distanza dalle sponde fissati dalla Federazione Internazionale noi applichiamo il doppio, purtroppo all’estero ci sono veri e propri macellai che se ne fregano. Quando poi c’è il morto, parlano di fatalità e tutto continua come prima fino al prossimo».
In nome dello show e del business si tollerano quindi competizioni «estreme», l’accusa è sostenuta anche dalle prove: «Per eliminare Bristol, in Gran Bretagna, abbiamo dovuto aspettare almeno 14 “caduti”». Il carburante di questo sport in genere è la passione, i soldi li vedono i pochi che riescono a salire dalle categorie propedeutiche, 250 e 350 quelle in cui Rossi si era laureato campione del mondo quest’estate, alla Formula 1 dei motoscafi. E in uno scenario del genere anche la sicurezza per alcuni organizzatori senza scrupoli rappresenta un costo da tagliare. Non solo: costruttori stranieri riescono a fare lobby impedendo l’approvazione di misure obbligatorie come le cellule di sicurezza sugli scafi per poter così vendere i loro prodotti a prezzi più bassi. Una guerra commerciale sulla pelle dei più deboli, gli atleti. Già in passato c’erano state frizioni fra la nostra Federazione e quella internazionale guidata sempre da un italiano, Raffaele Chiulli. «Ma la cosa più sconvolgente — aggiunge Iaconianni — è che abbiamo perso un ragazzo e un grande pilota. Io correvo assieme a suo papà».