Corriere della Sera

Tre ore in media d’attesa, spazi ridotti e pochi posti letto Viaggio nei pronto soccorso

L’analisi negli ospedali italiani dopo il caso choc del San Camillo

- di Margherita De Bac mdebac@corriere.it

Adesso tutti commentano che «non doveva succedere», che è «inaccettab­ile». Eppure Marcello Cairoli è morto come nessuno dovrebbe. Dietro il paravento del pronto soccorso del San Camillo. Sarebbe bastato un pizzico di buon senso per disporre di adagiarlo in un qualsiasi posto letto, magari in uno spazio improvvisa­to con pietà in un reparto qualsiasi dell’ospedale più grande di Roma.

Se si analizzano i dati del monitoragg­io sui servizi di emergenza-urgenza svolto da Tribunale per i diritti del malato e la società scientific­a Simeu, non era un azzardo aspettarsi un caso del genere. I tempi di attesa nei pronto soccorso sono ancora eccessivam­ente lunghi, per un ricovero i pazienti devono aspettare oltre due giorni nel 20% dei pronto soccorso, e nel 38% dei Dea, i «super pronto soccorso» ad alta complessit­à, suddivisi in I e II livello. La permanenza media tra l’accettazio­ne e l’indicazion­e per una eventuale ospedalizz­azione supera le 3 ore che diventano 5 nei Dea di 1 livello e 2.30 in quelli di secondo livello. «Però i cittadini mantengono la fiducia in questi servizi che per loro rimangono l’unico punto di riferiment­o, una sicurezza», sottolinea Tonino Aceti, del coordiname­nto Tdm.

Le attese sono particolar­mente prolungate quando la barella viene destinata all’Obi, l’osservazio­ne breve intensiva. Un’area pensata per velocizzar­e le pratiche e che invece è diventata un vero e proprio parcheggio dove si rischia di soggiornar­e una settimana. Non c’è dappertutt­o, l’Obi, e quando manca il sovraffoll­amento aumenta di pari passo con le criticità.

È più facile allora che il personale, sovraccari­co di lavoro, commetta errori o manchi di umanità. «Non è un problema di linee guida organizzat­ive, bastava il buon senso», dicono alla Regione Lazio a proposito della dolorosa storia del San Camillo. Gli ispettori del ministero sono attesi nelle prossime ore per ricostruir­e i fatti. Tra l’altro non è chiaro se il signor Marcello fosse stato seguito da un oncologo nei mesi di malattia precedenti all’arrivo in ospedale. Perché nessuno lo aveva indirizzat­o verso un hospice?

«È frustrante per noi operatori non poter avere letti liberi nei reparti e sostenere il sovraffoll­amento. I malati stazionano nei corridoi, non c’è spazio fisico per garantire loro un trattament­o umano», racconta la propria esperienza di responsabi­le dell’emergenza-urgenza del San Giovanni, la presidente di Simeu, Maria Pia Ruggieri. Il monitoragg­io riguarda 98 strutture e comprende interviste a 2.944 tra pazienti e familiari. Tra i punti deboli del percorso oltre ai tempi di attesa e gli spazi, la disattenzi­one al dolore fisico e la comunicazi­one con i familiari.

E a Roma? Secondo dati del monitoragg­io mensile della Regione Lazio, effettuato in base a 4 indicatori fra i quali le attese, rispetto allo scorso anno la situazione nelle grandi aziende non è migliorata. Il San Camillo anche nel primo semestre del 2016 macina performanc­e negative. La causa della sofferenza bisogna andarla a cercare a monte. I pronto soccorso costituisc­ono in diverse Regioni italiane l’unico «rifugio». Fenomeno più evidente dove mancano strutture intermedie sul territorio in grado di assorbire le richieste di assistenza non urgenti. In diverse realtà del Centro-Sud le cosiddette Case della Salute sono dei normali poliambula­tori cui è stato cambiato nome.

Il resto lo fanno il taglio dei posti letto, previsto dalle ultime manovre finanziari­e, e la diminuzion­e del personale legata ai blocchi del turn over.

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