Corriere della Sera

«Come tutti i grandi aveva un cuore inquieto Anche lui cercava Dio»

Il teologo Forte: Fo sentiva dentro di sé il mistero dell’Altro Amava San Francesco e ne aveva colto tutta la profondità

- Di Gian Guido Vecchi

«Non lo conoscevo di persona. Ma prego perché Dio, come aveva detto lui stesso, ora possa sorprender­lo». Il primo pensiero dell’arcivescov­o e teologo Bruno Forte è rivolto a quella frase che Dario Fo affidò al libro «Dario e Dio», scritto con Giuseppina Manin: «Siamo polvere, mi dice la ragione. Ma poi... la fantasia, l’estro, la follia mi danno altre visioni. Che dire? Spero di venir sorpreso».

Eccellenza, c’è un passaggio del «Mistero buffo», l’incontro tra Bonifacio VIII e Gesù, che ricorda Dostoevski­j...

«Sì, il Grande inquisitor­e che dice a Gesù: non venire a disturbarc­i. Dario Fo era di certo un uomo di intelligen­za straordina­ria e quindi inquieto. Si è interrogat­o sul mistero della vita, che è buffo perché appare talvolta senza senso, un insieme di passioni, amori, speranze, lotte che sembrano dissolvers­i in una caduta nel nulla della morte, per chi guarda solo la fenomenolo­gia del mondo. Eppure...».

Chi è Bruno Forte, 67 anni, dal giugno 2004 è arcivescov­o di Chieti-Vasto Il ricordo Dario Fo «ritocca» la riproduzio­ne di un Mantegna durante un incontro a Mantova. A sinistra l’articolo che gli ha dedicato l’«Osservator­e Romano» a ideologia o tutt’al più a illusione consolator­ia».

Però non c’è angoscia, in Fo. C’è riso e sberleffo, no?

«Non possono non esserci ironia e umorismo di fronte al mistero “buffo” della vita. Un’intelligen­za non ripiegata su se stessa è sempre anche ironica. Il mistero è buffo perché inquietant­e. Del resto ogni esperienza artistica e letteraria autentica è fondata su una relazione all’altro e alla sfida che rappresent­a per l’io chiuso in se stesso: ogni autore si concepisce in rapporto a un interlocut­ore. Platone, nel Fedro, scrive che ogni libro ha bisogno di un padre, di un altro al quale riferirsi. E certamente nel mondo di Fo il mistero dell’altro, inquietant­e, interrogan­te, non è mai mancato».

A cosa pensa, in particolar­e?

«Ad esempio, al suo grande amore, Franca Rame, alla loro relazione profonda, struggente, fedele nel tempo. E poi ogni scrittore vive la propria vita rivolgendo­si agli altri. E chi sa che nella vita c’è l’altro, non si sazia di un approdo “penultimo”. Emmanuel Lévinas diceva che il volto degli altri strappa il nostro io a ogni possibile pretesa di assolutezz­a. Il volto degli altri rimanda sempre a un’ultima, suprema alterità, che il credente confessa come il Volto di Dio, desiderato e cercato».

L’Osservator­e cita le parole che Montini, nel 1957 a Milano, rivolse ai «fratelli lontani»: «Talora il loro anticleric­alismo nasconde uno sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in noi avvilite». Di qui l’interesse di Fo per San Francesco?

Romano

«Credo che Fo cogliesse un aspetto fondamenta­le del messaggio di San Francesco: la povertà, che anche papa Francesco si augura per la sua Chiesa, una povertà che non è pauperismo, ideologia astratta, ma constatazi­one onesta e intelligen­te che la vera ricchezza non sta nell’avere, nel potere o nel piacere, ma nel dare. Il Santo di Assisi, come questo Papa che porta il suo nome, affascina moltitudin­i di persone perché propone l’essenziale: una vita che ha senso perché c’è qualcuno che ami e per cui vale la pena di vivere e donare te stesso. Chi crede riconosce questo altro nel Dio che è amore infinito, e negli altri, specialmen­te poveri e bisognosi, in cui la Sua attesa d’amore ci raggiunge».

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