Nelle «ballate omeriche» l’epica civile e popolare dove Eliot parla con Pound
The times they are a-changin’. Così, alla fine, è successo. Proprio nel giorno in cui è morto Dario Fo, l’Accademia di Svezia ha dato un nuovo Nobel alla voce. Alla parola detta: o meglio, in questo caso, cantata.
The answer is blowin’ in the wind
Tanta poesia antica, va detto, era concepita o recitata con un accompagnamento musicale. Ma il premio dato a Dylan ratifica qualcosa che ha cominciato ad accadere mezzo secolo fa. Quando, verso la metà degli anni Sessanta, la canzone ha avuto l’ardire di presentarsi non solo come nuova poesia popolare (o pop-orale) ma anche come nuova poesia civile. Secondo un’inchiesta svolta nel 1965 dalla rivista «Esquire», per gli studenti delle università americane le tre persone più importanti del momento erano John Kennedy, Bob Dylan e Fidel Castro. Nel dicembre dello stesso anno, un titolo del «New York Times» recitava: «Bob Dylan è l’erede di Faulkner e di Hemingway?». Se il riferimento era al fatto che i due avevano vinto il premio Nobel, la risposta ha smesso di soffiare nel vento.
Mr. Tambourine man, play a song for me
Parlando di Joey, in un’intervista del 1991, Dylan diceva: «Secondo me, non per vantarmi, questa canzone è come una ballata omerica». Il Nobel di ieri sovverte un paradigma; rende definitivamente vecchia la distinzione (così com’eravamo abituati a concepirla) tra cultura alta e cultura bassa. Anche da noi, d’altra parte, da almeno
Certi fan riconoscono echi biblici, talmudici e cabalistici nei suoi versi
due generazioni Mister Tamburino ha sostituito nell’immaginario collettivo il Tamburino sardo del libro Cuore. E i ragazzi sanno a memoria i versi di Knockin’ on Heaven’s Door molto più di quelli del paradiso dantesco. Anche la poeticità criptica o surreale di certa canzone d’autore italiana si dovrebbe — secondo alcune ricostruzioni — non alla nostra poesia novecentesca, ma al modello di Bob Dylan. Lui che a sua volta aveva fatto proprio quello di tanti altri poeti, tra cui Eliot e Pound che in Desolation Row discutono sul ponte di comando del Titanic.
Like a Rolling Stone
Così la pensava, nel 1978, anche Francesco Guccini, che — contraddicendo «i critici snob intellettual-liceal-universitari» — riconosceva in De Gregori non un linguaggio ermetico o montaliano, ma «dylaniano».
Un’influenza diventata peraltro esplicita, lo scorso anno, con la pubblicazione dell’album-tributo Amore e furto. De Gregori canta Dylan. Lavoro nel quale il cantautore romano si tiene a debita distanza dalla ponderosa tradizione esegetica ormai stratificata sui testi di Dylan. Per i commentatori che in ogni frase riconoscono una provenienza biblica, talmudica o cabalistica è stata già coniata — d’altronde — la definizione di «Bobolatri». Sono passati più di quarant’anni da quando Fernanda Pivano scriveva che «al di là dello stellismo, al di là dell’industria discografica, al di là perfino della vanità personale o del culto della personalità, Bob Dylan non fu soltanto un cantante e un chitarrista, ma fu soprattutto un poeta e un profeta». Quel passato remoto era già pieno di nostalgia: «Once upon a time you dressed so fine»…