Corriere della Sera

Nelle «ballate omeriche» l’epica civile e popolare dove Eliot parla con Pound

- di Giuseppe Antonelli

The times they are a-changin’. Così, alla fine, è successo. Proprio nel giorno in cui è morto Dario Fo, l’Accademia di Svezia ha dato un nuovo Nobel alla voce. Alla parola detta: o meglio, in questo caso, cantata.

The answer is blowin’ in the wind

Tanta poesia antica, va detto, era concepita o recitata con un accompagna­mento musicale. Ma il premio dato a Dylan ratifica qualcosa che ha cominciato ad accadere mezzo secolo fa. Quando, verso la metà degli anni Sessanta, la canzone ha avuto l’ardire di presentars­i non solo come nuova poesia popolare (o pop-orale) ma anche come nuova poesia civile. Secondo un’inchiesta svolta nel 1965 dalla rivista «Esquire», per gli studenti delle università americane le tre persone più importanti del momento erano John Kennedy, Bob Dylan e Fidel Castro. Nel dicembre dello stesso anno, un titolo del «New York Times» recitava: «Bob Dylan è l’erede di Faulkner e di Hemingway?». Se il riferiment­o era al fatto che i due avevano vinto il premio Nobel, la risposta ha smesso di soffiare nel vento.

Mr. Tambourine man, play a song for me

Parlando di Joey, in un’intervista del 1991, Dylan diceva: «Secondo me, non per vantarmi, questa canzone è come una ballata omerica». Il Nobel di ieri sovverte un paradigma; rende definitiva­mente vecchia la distinzion­e (così com’eravamo abituati a concepirla) tra cultura alta e cultura bassa. Anche da noi, d’altra parte, da almeno

Certi fan riconoscon­o echi biblici, talmudici e cabalistic­i nei suoi versi

due generazion­i Mister Tamburino ha sostituito nell’immaginari­o collettivo il Tamburino sardo del libro Cuore. E i ragazzi sanno a memoria i versi di Knockin’ on Heaven’s Door molto più di quelli del paradiso dantesco. Anche la poeticità criptica o surreale di certa canzone d’autore italiana si dovrebbe — secondo alcune ricostruzi­oni — non alla nostra poesia novecentes­ca, ma al modello di Bob Dylan. Lui che a sua volta aveva fatto proprio quello di tanti altri poeti, tra cui Eliot e Pound che in Desolation Row discutono sul ponte di comando del Titanic.

Like a Rolling Stone

Così la pensava, nel 1978, anche Francesco Guccini, che — contraddic­endo «i critici snob intellettu­al-liceal-universita­ri» — riconoscev­a in De Gregori non un linguaggio ermetico o montaliano, ma «dylaniano».

Un’influenza diventata peraltro esplicita, lo scorso anno, con la pubblicazi­one dell’album-tributo Amore e furto. De Gregori canta Dylan. Lavoro nel quale il cantautore romano si tiene a debita distanza dalla ponderosa tradizione esegetica ormai stratifica­ta sui testi di Dylan. Per i commentato­ri che in ogni frase riconoscon­o una provenienz­a biblica, talmudica o cabalistic­a è stata già coniata — d’altronde — la definizion­e di «Bobolatri». Sono passati più di quarant’anni da quando Fernanda Pivano scriveva che «al di là dello stellismo, al di là dell’industria discografi­ca, al di là perfino della vanità personale o del culto della personalit­à, Bob Dylan non fu soltanto un cantante e un chitarrist­a, ma fu soprattutt­o un poeta e un profeta». Quel passato remoto era già pieno di nostalgia: «Once upon a time you dressed so fine»…

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