L’Isis rivendica: «Punita la Turchia infedele» Un killer cinese, 180 colpi, a segno uno su due
Lo Stato islamico ha rivendicato la strage di Capodanno in arabo e in turco: «È stato un nostro soldato» Continua la caccia all’uomo. Arrestati dodici sospetti, perquisite numerose case di noti estremisti
Èarrivata la rivendicazione dell’attentato di Capodanno nella discoteca Reina di Istanbul, dove sono morte 39 persone. La firma è dell’Isis che ha diffuso il comunicato anche in lingua turca. Il killer intanto sarebbe stato identificato: le indagini portano a un 25enne dello Xinjiang, regione autonoma della Cina nordoccidentale abitata dagli uiguri, etnia che parla una lingua simile al turco e di fede musulmana. Ricostruiti gli ultimi spostamenti dell’attentatore. Nel locale sono stati sparati 180 colpi.
DAL NOSTRO INVIATO
Una donna piccola, piegata, rigata dalle lacrime s’accascia sulla bara del figlio. Ha il foulard delle anatoliche e abbraccia la foto incorniciata: «Faceva solo il suo dovere e me l’avete ucciso!...». Dietro di lei, una ragazza bionda e truccata e con un giubbotto di pelle nera la solleva, la cinge, l’accarezza e poi si schianta pure lei: «Dovevamo sposarci, me l’avete rubato!...». Per un giorno, un giorno solo, tutte le Turchie s’abbracciano nel rosso delle bandiere che coprono le bare, del sangue lasciato sui tavoli del Reina Club, d’un Capodanno colorato d’orrore.
Vite musulmane e non, destini umani tutti uguali. L’addio a Yunus Gormek, 23 anni, che lavorava come cameriere alla discoteca per finanziarsi gli studi, è quasi un funerale di Stato, anche se lo Stato non si fa troppo vedere: a centinaia gettano fiori rossi davanti alla moschea Ali Pasha, quando passa il feretro imbandierato, e le tv trasmettono in diretta i pianti disperati d’una madre, i singhiozzi d’una fidanzata, le urla delle prefiche e il silenzio impressionato d’un Paese esausto e disperato che in un anno, di stragi, ne ha vissute tre al mese. «Trovatelo!», hanno scritto su un biglietto lasciato davanti al locale sul Bosforo. «Ovunque si nascondano nel 2017 — promette il vicepremier Numan Kurtulmus, un oltranzista del partito islamista di Erdogan — andremo lì e li staneremo. Col volere di Dio, col supporto della nostra gente, con tutta la nostra capacità di nazione, li metteremo in ginocchio e daremo loro tutta la risposta necessaria».
«Abbiamo trovato impronte digitali e bossoli che possono darci buone tracce» Il killer era professionale e addestrato, molto freddo. Un agente radicalizzato?
Elicotteri e corpi speciali
Non sarà facile. L’inchiesta sul killer sta facendo qualche passo. Dodici arresti, elicotteri e corpi speciali, in particolare nel quartiere meridionale di Zeytinburnu da dove si pensa sia partito l’assassino con il mitra nella borsa. Perquisizioni anche nelle case d’estremisti, 92, che su 347 account di social network hanno postato elogi dell’attacco, in qualche caso con dettagli non conosciuti al pubblico. «Abbiamo trovato impronte digitali e bossoli che possono darci buone tracce», dice il governo turco: si sparge ottimismo per calmare un po’ l’opinione pubblica, dove si può, «arriveremo al successo con determinazione», ma per ora ci sono solo indizi.
Il jihadista sarebbe un cinese uiguro dello Xinjiang, come ipotizzato fin nelle prime ore, e le nuove immagini video rilasciate — che svelano un po’ di pasticci e depistaggi nelle rivelazioni di Capodanno, con foto messe in giro a casaccio — mostrano ancora meglio i tratti asiatici descritti da molti testimoni. L’uomo ha 25 anni, dice la polizia e non ha la barba. Secondo alcune fonti, potrebbe trattarsi anche d’un uzbeko o d’un kirghizo, e sarebbe comunque stato identificato: forse ha anche già lasciato il Paese, qualche segnalazione lo dà oltre la frontiera siriana, anche se l’insistenza con cui la polizia sta setacciando Zeytinburnu — una zona enorme, due milioni di persone — fa pensare che ci siano coperture fra i siriani, gli uiguri, i centroasiatici che vi abitano.
Calma impressionante
Camiciola verde, pantaloni scuri, scarpe nere. La sera della strage avrebbe preso il taxi nella parte meridionale di Istanbul, settore europeo, e avrebbe raggiunto così il quartiere dei ristorantini e dei locali a Ortakoy. Non è sicuro che mirasse diretto al Reina: il tassista ha detto che c’era traffico e d’avere lasciato il terrorista ad almeno cinque minuti a piedi dalla discoteca, ed è possibile pure che l’obbiettivo all’inizio fosse un altro dei locali della zona.
Era solo? Il dubbio ancora rimane: i tempi lunghi dell’attacco, quasi cinque minuti, la possibilità di ricaricare almeno sei volte l’arma, i tredici minuti passati nella cucina del club
per ripulire l’arma e cambiare d’abito (ha abbandonato pure il cappotto, in tasca 500 lire turche), fanno pensare all’appoggio di un palo. O addirittura, ipotizza la stampa turca, a qualche complicità nella sicurezza: l’ambasciata americana aveva avvertito del rischio d’un attacco a Ortakoy e l’area era presidiata.
Secondo un giornale, l’asiatico era «professionale e addestrato, molto freddo», e potrebbe essere un poliziotto radicalizzato (cosa di cui non ci si stupisce: lo era anche l’assassino dell’ambasciatore russo ad Ankara). All’inizio è salito al primo piano, da dove ha colpito chi stava sotto, poi è sceso e ha finito molti feriti. Diverse vittime della strage sono state colpite alla testa, ha appurato l’autopsia: 180 colpi, la metà dei quali andati a segno.
I venticinque morti stranieri sono la maggioranza e la maggior parte sono arabi, oltre a un tedesco, a un americano, a un canadese. Un cadavere è così sfigurato da non essere stato ancora identificato. Finito il lavoro, il jihadista è scappato sul lato sinistro della strada e lì, come se niente fosse, ha ripreso un altro taxi. Che ha mollato poco dopo, dicendo di non avere soldi abbastanza: li aveva lasciati nel cappotto.
«Servi della croce»
Pochi dubbi sulla matrice. I curdi del Pkk (Partito dei lavoratori curdi) si sono chiamati fuori subito —«non ammazziamo di proposito i civili» — e l’Isis ha rivendicato, per la prima volta in arabo e anche in turco: l’«eroico soldato del Califfato» ha colpito «dove i cristiani stavano celebrando la loro festa pagana». L’azione viene presentata come una punizione ai musulmani che festeggiano il Capodanno, idea molto comune tra i fondamentalisti e nello stesso partito del presidente Recep Tayyip Erdogan, oltre che una vendetta per i bombardamenti in Siria e in Iraq.
Si fa riferimento a un ordine espresso di Al Baghdadi, califfo dell’autoproclamato Stato islamico: lasciate che «la Turchia infedele e serva della croce» riceva lo stesso «sangue versato dai musulmani, trasformato in fuoco sul suo territorio».
Al comunicato, Erdogan risponde a tono: non ci faremo spaventare, dice il suo vicepremier, ormai la guerra turca in Siria va avanti dalla fine d’agosto e «la campagna Scudo dell’Eufrate continuerà dove serve. Questo attentato è un messaggio contro le nostre truppe che combattono l’Isis. Alle pallottole, risponderemo con la nostra rabbia».
Erdogan: «Questo attentato è un messaggio contro le nostre truppe che combattono l’Isis. Alle pallottole, risponderemo con la nostra rabbia»