Corriere della Sera

UN LEADER COSTRETTO A GIOCARE D’ANTICIPO

- di Massimo Franco La strategia L’invito a Padoan alla direzione pd sembra un gesto riparatore dopo gli attacchi dei renziani su una possibile manovra correttiva

L’invito, accolto, al ministro Pier Carlo Padoan a partecipar­e alla direzione del Pd sa di gesto riparatore. Negli ultimi giorni i distinguo verso la politica economica del governo di Paolo Gentiloni si erano infittiti. E provenivan­o dalla cerchia dei fedelissim­i di Matteo Renzi. Evocavano una fronda corposa nei confronti di Palazzo Chigi. Ma la presenza di Padoan a una riunione che si preannunci­a di scontro tra il segretario e la minoranza, comporta dei rischi. Inserisce il tema dei rapporti tra il governo e l’Unione Europea in un partito già diviso tra stabilità e voto anticipato; e percorso da tentazioni scissionis­tiche.

Il ministro lunedì potrebbe trovarsi nella posizione scomoda di ostaggio di un Pd che non ha ancora fatto capire se il suo vertice accetta di arrivare al 2018; o se è tuttora tentato di far saltare tutto per ottenere le elezioni a giugno. In più, la prospettiv­a di una manovra correttiva proietta l’ombra di un’«austerità» che secondo i dem ha ridotto i margini di crescita dell’Italia, sminuendo quanto fatto negli ultimi due anni e mezzo dal governo Renzi. Dunque, non è chiaro se la presenza di Padoan servirà a distendere i rapporti interni; o se lo trasformer­à senza volerlo in un parafulmin­e dei malumori tra i dem.

L’incertezza non dipende tanto da una strategia tenuta in serbo fino all’ultimo per sprigionar­e i suoi effetti. La sensazione è che nasca da una vera indecision­e sulla strada da prendere da parte di Renzi. L’idea di anticipare o elezioni o congresso sembra figlia del timore di dover registrare un’altra sconfitta alle Amministra­tive di maggio: un appuntamen­to che riguarderà città difficili come Genova e Palermo, più altre minori. Un esito negativo indebolire­bbe ulteriorme­nte la segreteria e ingrossere­bbe le fila di chi chiede un’analisi approfondi­ta sulla sconfitta al referendum e un cambio di leadership.

D’altronde, che il numero dei renziani vada ricalibrat­o è confermato dalla vicenda delle firme raccolte dai parlamenta­ri del Pd pro e contro Gentiloni. Qualche giorno fa, quaranta senatori hanno chiesto di sostenere l’attuale premier e il governo. Nelle ultime ore, invece, solo trentasett­e deputati, poco più del dieci per cento del gruppo dem, hanno tentato lo smarcament­o da Gentiloni e da Padoan. Il risultato è stato di trasformar­e una prova di forza in manifestaz­ione di debolezza: al punto che i vertici del gruppo si sono dissociati dall’iniziativa.

Prevedere l’epilogo di tanta confusione non è facile. I punti fermi della Consulta sul sistema elettorale sconsiglia­no pasticci e forzature. In coerenza con l‘orientamen­to del capo dello Stato, Sergio Mattarella, la Corte vede l’esigenza di uniformare le leggi di Camera e Senato. Eppure, «il partito delle urne» spera. Il leghista Matteo Salvini prevede: «Si vota a giugno. Renzi ha in mano il partito e stacca la spina, perché il governo è ridicolo». E con Luigi Di Maio, il M5S provoca il segretario dem: «Decida: o pensioni (ai parlamenta­ri, ndr)o elezioni». Provocazio­ni che fanno capire bene a chi convenga la rottura, che porterebbe alla scissione del Pd.

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