La strage dell’amianto nell’Oltrepò
Pavia, due ex manager Fibronit condannati per omicidio colposo. Sono 27 le morti accertate
Due colpevoli per 27 morti, nessun responsabile per le altre centinaia di vittime della strage da amianto che da decenni si consuma ai piedi delle colline dell’Oltrepò pavese. È questo il bilancio del processo di primo grado a carico di due ex manager della Fibronit, l’azienda di Broni (provincia di Pavia) che fino al ‘92 produceva manufatti in cementoamianto. Tredici anni dopo le prime denunce, il tribunale di Pavia ha condannato a 4 anni Michele Cardinale, 74 anni, ex amministratore delegato, e a 3 anni e 4 mesi l’ex direttore di stabilimento Lorenzo Mo, oggi settantenne. I giudici hanno anche stabilito una provvisionale di 20 mila euro per ogni erede di vittima che si è costituito parte civile. Assolto l’ex consigliere d’amministrazione Alvaro Galvani, 69 anni. Complessivamente le morti considerate nel processo erano oltre 280, ma per la grande maggioranza dei casi è scattata la prescrizione, favorita anche dai lunghi tempi di latenza del mesotelioma pleurico. Il micidiale tumore provocato dall’inalazione di fibre d’amianto, infatti, può rimanere asintomantico per decenni. Ma quando si manifesta — venti, trenta o anche quarant’anni dopo l’esposizione — non c’è più niente da fare. Non esiste cura, solo tentativi di ridurre le sofferenze del paziente.
Fino all’ultimo respiro
Proprio a questo si riferisce Silvio Mingrino, che in questo processo chiedeva giustizia per la morte di entrambi i genitori e ha ottenuto una condanna e una prescrizione: «Perché mio padre, ex dipendente Fibronit, è morto nel 1999, mentre la mamma, che era una casalinga e non ha mai messo piede in quella fabbrica, è mancata nel 2008. Comunque io non avrei neanche voluto condannare i due imputati al carcere — commenta — ma all’assistenza dei malati di mesotelioma fino al loro ultimo respiro, perché bisogna vivere vicino a quelle persone per capirne la sofferenza». E in questa terra «di vini e sapori» la Spoon river dell’amianto si allunga di almeno una cinquantina di nomi. L’epicentro dell’epidemia dei tumori «asbesto-correlati» è la Fibronit, una fabbrica che per quasi tutto il Novecento ha portato occupazione e sviluppo in mezzo alle campagne. Ma la produzione di manufatti a base di amianto ha portato anche uno strascico di lutti di cui ancora non si intravede la fine. All’inizio si ammalavano (e morivano) gli operai. Poi il mesotelioma ha iniziato a colpire le mogli che respiravano le fibre che entravano a casa con gli indumenti da lavoro. Quindi la strage si è allargata a nuove generazioni e a tutta l’area tra Broni, Stradella e le colline, contaminata da polveri e manufatti d’amianto.
Peggio di Casale
Nonostante un tasso di incidenza dei tumori da asbesto persino più alto di quello di Casale Monferrato, la reazione delle vittime, degli amministratori pubblici e di una giustizia (spesso tentennante) non è stata altrettanto tempestiva e organizzata. Ma comunque la storia giudiziaria dimostra quanto sia difficile provare responsabilità penali (cioè individuali) per le morti da amianto. Al processo Fibronit, spiegano gli avvocati Fabio Zavatarelli e Maria Rosa carisano, le perizie hanno ragionato sul concetto di «dose-accumulo», cioè l’inalazione reiterata nel tempo delle fibre che hanno generato il mesotelioma, mentre in passato prevaleva il criterio della «dose-killer», cioè la singola esposizione all’origine della malattia. Ancora più difficile da dimostrare.
Ma la giustizia guarda al passato. Il presente e il futuro sono i 32 milioni di tonnellate di amianto sparsi in tutta Italia, che ogni anno costano circa tremila vite.